2 Novembre 1975, veniva assassinato Pier Paolo Pasolini

DI VANNI CAPOCCIA

 

IL POPOLO NELLA POESIA DI PIER PAOLO PASOLINI

Pasolini è un gigante che obbliga a pensare; la potenza delle sue idee, la forza con la quale dichiarava i suoi convincimenti, la passione e la tenacia con la quale manifestava il suo pensiero seminavano dubbi, costringevano e tuttora costringono a discutere.

Oggi, in Italia dove lo trovi un intellettuale con la sua capacità di vedere cose che gli altri non vedono; che dica senza timore ciò che pensa; che abbia la sua capacità di dare voce ai pensieri di chi è messo fuori dalla storia.

Chi lotta con la sua stessa tenacia contro l’omologazione e dice a voce spiegata che corrisponde alla perdita dell’identità culturale e personale.

E chi è contemporaneamente poeta, narratore, saggista e regista svolgendo queste attività senza mai rinnegare il suo modo di esistere, di pensare e di esprimersi. Pasolini, un gigante che non ci siamo meritati.

Tutti pronti dopo la sua morte a giudicarlo divisi tra chi vuole beatificarlo accaparrandoselo senza approfondire il suo pensiero, senza osservare il mondo dalle finestre che lui ha aperto; e spicci liquidatori che vorrebbero sbarazzarsene spaventati da quello che diceva, da quello che faceva vedere, da quello che era.

Gli uni e gli altri uniti nel creare il personaggio “Pasolini”, oscurandone così il genio e condizionandone la lettura.

Gli anni ’50 dal punto di vista letterario sono i più intensi di Pasolini, escono “Ragazzi di vita” (per il quale fu processato), “Una vita violenta” e “Le ceneri di Gramsci.” E siccome Pasolini ha detto che “non soltanto si lavora in poesia, ma si vive in poesia” sforziamoci di capire qualche cosa di lui a partire da “Le ceneri di Gramsci”.

Pubblicata nel 1957, questa raccolta di undici poemetti è il punto più alto della poesia pasoliniana. Un volo radente sulla cultura, la storia, il paesaggio italiano nel quale si profila la visione pasoliniana di popolo, comincia a definirsi ed a caricarsi di preciso significato politico un pensiero del quale Pasolini si farà garante, divulgatore e testimone oggettivo.

È un’opera di impegno civile in cui il poeta espone in tutta la loro drammaticità le contraddizioni, consapevolmente vissute, del proprio pensiero: Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro di te.

Per Pasolini la distinzione di classe non era soltanto materialistica, stabilita dai rapporti di produzione, c’era anche una differenza antropologica e in questa raccolta c’è il confronto irrisolto tra ideologia e passione, tra il materialismo storico marxiano ed il popolo visto nel suo essere istinto e passione. “Le ceneri di Gramsci” è il poemetto centrale dell’opera alla quale da il nome.

In esso tutto ruota intorno al cimitero romano degli inglesi detto acattolico nel quartiere romano, allora popolare, del Testaccio. E si nota subito il contrasto tra il battere delle incudini che sale dal quartiere e il silenzio del laico cimitero in cui è sepolto – emarginato, esiliato anche da morto – Gramsci.

Dietro o in Gramsci s’individua la funzione attiva, rivoluzionaria, dell’ideologia marxista; le sue ragioni sono vere ma per Pasolini fredde come il cimitero, mentre la vita del sottoproletariato testaccino, pur se impura, è più calda. Gramsci rappresenta la dimensione storica, la coscienza proletaria con la quale il poeta si confronta; Pasolini ritiene che non sia portatrice di progresso che vede, invece, nella natura e vitalità prorompente del popolo la cui forza primitiva assume una valenza quasi religiosa.

Ad un certo punto scrive del capo comunista: non padre, ma umile fratello. Fratello come Guido, partigiano di Giustizia e libertà nella Brigata Osoppo ammazzato dai partigiani delle Brigate Garibaldi che combattevano con i “titini”.

Gramsci indifeso e solitario come Guido, che come Guido ebbe nemici nel suo campo: non padre, ma umile / fratello – già con la tua magra mano / delineavi l’ideale che illumina / (ma non per noi: tu morto, e noi / morti ugualmente, con te, nell’umido / giardino) questo silenzio. Non puoi, / lo vedi?, che riposare in questo sito / estraneo, ancora confinato. Gramsci viene più volte preso, ripreso e abbandonato, quasi a testimoniare la difficoltà di una sua precisa definizione.

Il centro delle Ceneri, invece, è la figura del poeta. Come se Pasolini, centrando lo sguardo su di sé, trovi la forza di confrontarsi con la storia ed il pensiero di Antonio Gramsci: Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro di te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere. A pochi metri dal cimitero un’altra vita alla quale Gramsci ed il Partito Comunista hanno sbagliato a non dare importanza, un mondo “altro” sottoproletario e subalterno con il quale Pasolini sente di avere un legame psicologico ed ideologico che descrive con commossa partecipazione e intensità: una “collettiva presenza” verso la quale se ne va: Me ne vado, ti lascio nella sera.

Lascia il cimitero e Gramsci con una domanda, un dubbio: potrò mai più con pura passione operare, / se so che la nostra storia è finita?

Se ne “Le Ceneri di Gramsci”è evidente lo scontro tra passione e ideologia, tra religiosità e marxismo, ne La religione del mio tempo pur permanendo l’immedesimazione e l’idealizzazione con la cultura del Popolo vengono abbozzati i punti fondamentali del pensiero pasoliniano degli anni successivi quando Pasolini percepisce l’abbassamento del livello culturale sottoproletario e della prossima omologazione.

Così Pasolini in un articolo su Vie Nuove del 16 novembre 1961: “La religione del mio tempo esprime la crisi degli anni sessanta […] La sirena neo-capitalistica da una parte, la desistenza rivoluzionaria dall’altra: e il vuoto, il terribile vuoto esistenziale che ne consegue.

Quando l’azione politica si attenua, o si fa incerta, allora si prova o la voglia dell’evasione, del sogno (‘Africa, unica mia alternativa’) o una insorgenza moralistica la mia irritazione contro certa ipocrisia delle sinistre: per cui si tende ad attenuare la realtà: si chiama ‘errore del passato’, eufemisticamente, la tragedia staliniana ecc.”.

(La scelta di dibattere in una rivista del Pci conferma il dialogo serrato, il confronto, lo scontro con il Partito comunista ed il mondo della sinistra che Pasolini ha sempre cercato e spesso provocato).

I concetti nascenti in “La Religione” si definiranno alla metà degli anni Sessanta, gli anni del consumismo e di contaminazione della cultura. Anni nei quali “il potere della civiltà dei consumi” distrugge le “varie realtà particolari”e i “vari modi di essere uomini”.

A causa di questo “genocidio culturale” il rapporto di Pasolini con il popolo si complica, matura una delusione nei suoi confronti. Il Popolo non è più un valore, lo è il Passato, in Poesia in forma di rosa scriverà: Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore.

Ma torniamo a La religione del mio tempo, si apre con la descrizione di un operaio “col suo minuto cranio, le sue rase / mascelle” davanti agli affreschi di Piero della Francesca nella chiesa di San Francesco ad Arezzo. L’impostazione è filmica, la struttura della poesia accompagna lo sguardo.

Pasolini narra il movimento: c’è la panoramica, le inquadrature, la soggettiva, il susseguirsi delle sequenze. Sembra di vederlo questo operaio con la testa rincalcagnata sul collo, intimorito dalla grandezza incomprensibile di Piero. Smarrito in mezzo ai suoi colori.

Poi Pasolini da Arezzo ci porta attraverso il paesaggio toscano e umbro, fino alla visione di Roma città aperta: Quasi emblema, ormai, l’urlo della Magnani, / sotto le ciocche disordinatamente assolute, / risuona nelle disperate panoramiche, e nelle sue occhiate vive e mute / si addensa il senso della tragedia.

E con il ricordo di Anna Magnani che sarà, per forza di predestinazione, la sola “Mamma Roma” pasoliniana possibile finisce tutto.

Finisce tutto anche perché Pasolini è faticoso, pensi di aver afferrato qualche cosa di lui per accorgerti poi di aver davanti ancora un’altra montagna da scalare. Leggendo, pensando e scrivendo mi sono ricordato di quando morì.

Delle parole dette da Moravia al suo funerale, sembrava di assistere ad una tragedia greca, più che ad un’orazione funebre. Quello di Moravia fu l’urlo disperato per la morte di un poeta, gridava che di poeti in un secolo ne nascono pochissimi, che il poeta è sacro.

Mi è tornato alla mente anche Nanni Moretti ed il suo film più bello Caro diario. Una specie di volo radente sull’Italia di oggi simile, anche se più intimo, a quello di Pasolini. In un episodio Moretti, in sella ad una Vespa, ci conduce per i quartieri di Roma, sempre più in periferia, fino al posto dove è stato ucciso il poeta de Le Ceneri di Gramsci.

L’episodio finisce con l’inquadratura del monumento dedicato a Pasolini devastato dai vandali che riducendolo in quel modo non si erano resi conto di averlo reso simbolo perfetto della sua vita e del suo pensiero.

Ora, purtroppo, l’hanno restaurato. Ho immaginato anche cosa Pasolini penserebbe oggi. Mi sono detto che avrebbe continuato a mettere in crisi la sinistra avvertendo, forse, valori nel popolo leghista e nella rabbia dei 5Stelle; per poi trovarne, forse, di ancora più forti nel popolo dei migranti, vedendo nei disperati che attraversano in fuga i confini la stessa forza vitale e religiosa che aveva visto nei sottoproletari “testaccini” de Le ceneri di Gramsci.

Foto tratta dal web

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