23:20.L’orologio di Piazza Mazzini

DI GIOVANNI BOGANI

 

L’ultima notte, quella in cui parlammo, dopo tanto tempo, mi confessasti che ti dispiaceva di essere stata sempre così tremendamente, melodrammaticamente ansiosa.

La prima volta che mi permettesti di uscire con gli amici, era estate, Viareggio, forse 1977. Che cosa era, il 1977 a Viareggio? Non lo so più. Forse Umberto Tozzi, o “Dammi solo un minuto” di Pooh. Dammi solo un minuto, mamma. È estate, esco con gli amici, sulla Passeggiata, quella specie di Croisette più volgare, con in fondo il molo e dall’altra parte il confine misterioso con il Lido di Camaiore.

Tanta gente che prende il gelato, jeans color rosa e celeste shocking. Gianni Morandi che canta “quel gufo con gli occhiali che sguardo che ha”, e un bambino che dice “me lo prendi, papà?”. Ma a me sembravano delle cazzate, già allora. Mentre Baglioni cantava “e chissà se prima o poi, se ogni tanto penserai che io sono solo”. La vita profumava di futuro, e ogni momento sembrava una grande occasione.

“Torna alle undici, mi raccomando”. Va bene, dissi io. Vedevo il grande orologio sulla torre della piazza centrale di Viareggio, non potevo sbagliare. Dalle gelaterie Umberto Tozzi urlava “Ti amo”, e “apri la porta a un guerriero di carta igienica”. Erano giorni di disco music, di febbre del sabato sera, di Bee Gees, di soul, di Lucio Battisti.

Eravamo fiorentini, un po’ americani, giovani, qualcuno aveva i capelli biondi come i Bee Gees, qualcuno aveva i jeans Levi’s a campana, qualcuno baciava le ragazze, il più matto era tornato da Londra, era magro come un fachiro e andava in bicicletta senza mani. Un mio amico mi disse che avevo “un bel fisico”, e io ne fui contento. Arrivai che l’orologio davanti alla piazza segnava le 23:20, venti minuti di ritardo. Tanto bastò per scatenare una tragedia, e forse in te il timore reale che fossi scomparso, inghiottito dal Nulla cosmico.

L’anno dopo, avevo quindici anni, a Viareggio andai a lavorare. Per voglia di libertà, per sentirmi più grande, meno bambino e più uomo. Pantaloni neri e camicia bianca, come avrei indossato anche dopo, ai festival, per fingere per trent’anni di essere un giornalista.

Pantaloni neri, camicia bianca, correre per dieci ore al giorno, fare caffè, servire gelati, vedere la gente che andava al mare, che tornava dal mare, i vecchietti delle pensioni. E amarli tutti, amare tutta quell’umanità che aveva sempre bisogno di qualcosa, un aperitivo, un amaro, dissetarsi, digerire, farsi venire appetito. E stavo lì fino alle due di notte, fino a dopo chiusura, perché c’era da lavare i pavimenti, e poi pulire gli stracci, e attento che non ci siano vetri dentro, se no ti tagli le mani.

E alle due e mezza finalmente tornare a casa, con un pacchettino di paste non vendute, quelle che avrei potuto mangiare, come premio di tutta la giornata.

Alle due e mezza di notte, avevo appena finito l’ultimo straccio, ero seduto fuori, stremato, su una delle sedie di quella specie di piccolo déhors, e all’orizzonte vedo arrivare te che trascini papà, veloce come Anna Magnani quando corre dietro alla camionetta dei nazisti, col braccio teso: “Francescoooo!”.

Ma non ti ha sparato nessuno, non c’è stata una scena memorabile per tutto il cinema mondiale. Ci sono stati solo gli sguardi straniti degli altri ragazzi che lavoravano con me. Avevo finito di essere un quindicenne sveglio che lavorava e sapeva affrontare i clienti, guadagnarsi le mance, qualche volta persino incuriosire le ragazze, con una battuta al volo nel tempo di porgere il gelato.

Ero tornato un bambino da afferrare per le bretelle, ogni volta che si allontana. Tornai a casa, e tutto il mio coraggio rimase lì, sul bancone del bar.

Immagine tratta dal web

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