A volte ritornano

DI FABIO BORLENGHI

Inizio di gennaio nell’Appennino centrale con cielo terso e aria fredda, sto tornando da un controllo fatto presso una vecchia cava dismessa e in parte rinaturalizzata a circa 1100 metri di quota.

Poco prima sono salito a piedi lungo uno stradino sterrato coprendo un dislivello di 300 metri e arrivando ai piedi di una formazione rocciosa composta di scogli calcarei emergenti dal fianco della montagna.

Visti da vicino gli scogli mi sono parsi non idonei per l’aquila reale e così dopo una breve sosta in quota sono tornato al punto di partenza. Ripresa l’auto ridiscendo la strada provinciale che scorre alle pendici della montagna.

Fatti pochi chilometri mi fermo in una piazzola e mi ritrovo alla base di un vasto sistema rupestre che occupa il versante sud della montagna. Insieme al mio fedele binocolo Leica decido di trascorrere lì qualche ora per osservazioni naturalistiche.

Questo è uno dei siti storici che un tempo ospitava una coppia di aquile reali che avevano il loro grande nido su una di queste rupi esposta a ovest.

E’ mezzogiorno e fa freddo. Il cielo è nuvoloso con ampi squarci azzurri e in quota si osserva una certa ventilazione. Numerose le pareti rocciose calcaree che fanno da sponda a ripidi canaloni che irrompono ripidi verso le pendici, non lontano dalla periferia di un centro abitato di una certa importanza sia per dimensioni sia per storicità.

Nella parte sommitale della montagna fanno capolino chiazze di neve caduta nei giorni passati. Passano i minuti, i quarti d’ora, un’ora e non vedo volare niente.

Anni fa una coppia di aquile si fece osservare qui per alcuni mesi, poi più niente. Chissà come andò, tante sono ancora le insidie che ostacolano l’insediamento di una coppia di questi splendidi uccelli in un territorio seppure idoneo.

S’è fatta l’una, quand’ecco arrivare alte nel cielo due sagome scure. Afferro il binocolo e le inquadro: sono due rapaci. I due uccelli planano sul crinale a lato del canalone principale per fare subito dopo dietro front allargando le ali scure. Evviva, sono proprio loro: due aquile reali dal piumaggio adulto.

Allora sono tornate?! Mah…vedremo, in natura ci vuole pazienza, tanta.
La coppia di aquile inizia un bellissimo volo sincrono, in pratica ognuna vola in modo identico alla compagna in un curioso copia e incolla simultaneo, rasentando le rupi illuminate dal sole, inseguite dalle loro ombre stagliate sulle rocce che danno vita a una seconda coppia fantasma.

Oltrepassate in volo le rupi, ecco le aquile girare attorno al fianco boscoso della montagna, sullo sfondo azzurro del cielo. Pochi secondi ancora nel campo visivo del binocolo e poi scompaiono.

Nell’Appennino centrale fino alla metà del secolo scorso le aquile reali occupavano un certo numero di siti montani ospitanti i loro grandi nidi, con una densità di popolazione consona alle risorse alimentari del momento.

A quel tempo le popolazioni locali vivevano principalmente di agricoltura di montagna, pastorizia, allevamento del bestiame e gestione dei boschi, conducendo una vita semplice ma dura.

L’ambiente naturale costituiva il posto di lavoro per molte di queste persone e la convivenza con la grande fauna selvatica era assicurata dalla scarsa accessibilità verso i luoghi cosiddetti selvaggi nei quali si arrivava a fatica percorrendo qualche antica mulattiera.

Le armi da fuoco erano possedute da chi se le poteva permettere, ovvero una minoranza di persone e certamente questo fattore garantiva una certa sopravvivenza agli animali selvatici, nonostante che in quei tempi quella che oggi chiamiamo coscienza ambientalista non era certo diffusa né tanto meno esisteva una legislazione mirata alla conservazione della natura, a parte una semplicistica normativa venatoria.

Poi vennero gli anni del dopoguerra, della ripresa economica e…dei grandi problemi per gli ambienti naturali. I territori montani subirono forti trasformazioni subendo la costruzione, spesso inutile, di strade di penetrazione che avrebbero poi consentito l’arrivo di una pressione venatoria sconosciuta nei decenni precedenti e dovuta soprattutto a un forte aumento delle licenze di caccia, triplicate negli anni ’50 rispetto ai primi decenni del secolo.

In tutto questo contesto la cosiddetta lotta ai nocivi ebbe un peso determinante in termini negativi verso molte specie della fauna selvatica (lupi, aquile, volpi…); in particolare le aquile subirono azioni di persecuzione diretta ai nidi e abbattimenti ripetuti d’individui.

Conclusione: verso la metà degli anni ’80 del secolo scorso il 40% dei siti di aquila reale nell’Appennino centrale erano deserti per estinzioni locali.

Dopo una quindicina d’anni le aquile cominciarono a ricolonizzare gli antichi territori grazie a una legislazione di tutela varata negli anni precedenti, a un aumento delle aree protette (parchi e riserve naturali; legge 394/91) e a un’aumentata coscienza ambientale nella gente comune.
Torniamo ai nostri giorni…

Il freddo aumenta. Sono passati tre quarti d’ora da quando le aquile sono sparite dietro il crinale e davanti alle rupi ho visto solo un paio di taccole passare veloci; quando ecco di nuovo le aquile tornare indietro in volo battuto alto sulle rupi, una dietro l’altra. Ora distinguo il loro dimorfismo di coppia con la femmina più grande del maschio.

Le due aquile si portano al centro del sistema rupestre, poi virano allontanandosi dalle rocce e, portandosi sulla verticale delle prime case del paese, accennano una parata nuziale quasi sfiorandosi con gli artigli.

E’ il segno del legame di coppia che si rafforza in inverno nelle settimane che precedono la riproduzione.
La coppia sparisce di nuovo dietro la sommità della montagna per poi tornare più tardi, una terza e ultima volta, quasi a volermi salutare suggerendomi così di tornare ancora nei giorni a venire per assicurarmi della loro presenza nel sito.

Il sole inizia a scendere sull’orizzonte.
Torno a casa felice per questo straordinario e rinnovato incontro con le regine del cielo.

© ® Foto di Fabio Borlenghi

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