Addio Catherine Spaak, un altro pezzo di cinema che se ne va

DI GIOVANNI BOGANI

Per me era più bella di Brigitte Bardot. Severa, negli ultimi anni. Ma fu gentilissima quando mi rispose al telefono. Dovevo chiederle del “Sorpasso”, di quel film prezioso e miracolosamente perfetto di cui lei, ragazzina, si trovò a fare parte. E a dare il suo contributo di irriverente giovinezza.

Un altro pezzo di vita, di mondo, di cinema che se ne va. Addio Catherine Spaak.

 

Era un altro mondo.

O forse no. Era un altro mondo perché il Ferragosto del 1962, a Roma, sembrava di essere sulla Luna. Vittorio Gassman che cerca un telefono, un bar aperto. E non lo trova. Arriva alla Baduina.

Incontra Jean-Louis Trintignant, studente di Legge, camicia e pantaloni lunghi. Che offre a Bruno il telefono. Si parte. L’Aurelia sapeva di pini e di mare, oggi ci sono le prostitute ai bordi della strada, sistemate sulla seggiolina. Allora c’erano le trattorie alla buona, il vino nel fiasco di paglia, le osterie con la zuppa di pesce.

Ora ci sono discariche sfinite, altre che dovrebbero nascere. Prima, soprattutto, c’erano i sogni e le speranze di un’Italia cialtrona, ma ottimista. Allegra, convinta di farcela. Ora c’è la crisi vera come un ronzio continuo nella testa di tutti.

Era una ragazzina, all’epoca, Catherine Spaak. Diciassette anni, una bellezza da far impallidire Brigitte Bardot. Anche perché era una bellezza “moderna”, agile. Verrebbe da dire: europea.

Lei, figlia di un’attrice e di uno sceneggiatore, nipote di un primo ministro belga, si affacciava a quel mondo del cinema, e a quella Italia. Lei, quel film, non lo rivede spesso. Anzi, non lo rivede mai. Come fa per tutti gli altri film che ha interpretato.

Sano atteggiamento, per poter guardare sempre al futuro, e non rimanere intrappolati nell’ambra di un passato.

Quando la raggiungiamo al telefono, Catherine Spaak – adesso splendida signora di 67 anni, madre di due figli, autrice di numerosi romanzi, e tornata da poco al cinema con “I più grandi di tutti” di Carlo Virzì – ricorda quel film, quell’Italia. E anche quel Vittorio Gassman. Non molto diverso dal suo personaggio nel “Sorpasso”.

Signora Spaak, cominciamo dal mondo che “Il sorpasso” racconta. Quanto era diverso da ora?
“C’era una differenza enorme con il presente. C’era il boom, l’euforia generale. E poi tutto era più vuoto, più grande, c’era più spazio. C’era più aria, lo sguardo poteva andare più lontano”.

Com’era quel set?
“Vuole la verità? Non era semplice. Il cinema era prevalentemente una faccenda di uomini. Come lo era la società. Ed è un errore pensare che il mondo del cinema fosse più aperto, libero da pregiudizi. In quel mondo, di femminile c’erano la sarta, la segretaria di edizione e poi l’attrice. Che non era affatto considerata bene”.

Come la trattavano i suoi partner nel film, Trintignant e Vittorio Gassman?
“Trintignant era un gran signore, educato, gentile, ironico. Come del resto Dino Risi, il regista. Vittorio era invece un uomo molto timido. E come tutti i timidi che vogliono apparire disinvolti, e magari conquistatori, diventava aggressivo e prepotente”.

Con chi?
“Con me. Aveva un atteggiamento piuttosto arrogante. Non tanto in quel film, quanto nel successivo ‘L’armata Brancaleone’, che per me fu un vero incubo. Gassman e Monicelli erano dei maschilisti totali. Quando arrivava sul set, Gassman mi insultava. Per scherzo, certo. Per far ridere la troupe. Ma io ero molto, molto stressata”.

Non fu esattamente una passeggiata, quel set…
“Per me fu solo lavoro duro. Ero giovanissima, non parlavo ancora bene l’italiano. Andavo a letto presto, e le sere le passavo a studiare il copione”.

In realtà, nel film, il suo personaggio è quello che incrina la sicumera del personaggio di Gassman. Lo mostra per quello che è: un padre assente, distratto, cialtrone.
“E’ vero: quando Gassman non la riconosce e sta quasi per provarci con lei, e lei gli fa una risata in faccia, lo mostra patetico”.

Il suo personaggio nel film ha una relazione con un uomo molto più vecchio di lei. Nel suo ultimo romanzo, “L’amore blu”, racconta di una donna che sta con un uomo di 28 anni più giovane. Due estremi opposti. Come li giudica?
“Beh, quella del romanzo è, in realtà, la storia di un incontro spirituale. Per gli incontri delle anime, non c’è età. Non ha niente a che vedere con una moda, più o meno discutibile, in cui signore ‘grandi’ hanno compagni giovanissimi. Quello che conta – nel romanzo, come nella mia vita – è l’incontro spirituale, la crescita”.

E a quale punto si sente, della sua crescita come persona?
“Mi sento disincantata. Ma non senza speranza. Finché la bellezza, la cultura, la musica, l’arte, la poesia, la musica avranno parte nella mia vita, riuscirò a essere felice. Non è stato semplice: è un mondo che mi sono costruita, giorno per giorno. Un mondo in cui quelle cose contano”.

Molte di quelle cose avevano importanza nella sua trasmissione, “Harem”. Perché non si fa più?
“Dovreste chiederlo ai dirigenti Rai. La tv degli ultimi quindici anni è diventata molto esteriore, gridata, volgare, violenta. Per un programma come quello forse non c’è più posto. Ma so che c’è un pubblico che vorrebbe una tv diversa”.

Lei ebbe immediatamente una grande popolarità. Ed aveva appena diciassette anni. Come la visse?
“Nell’isolamento. E lavorando. Non sono mai stata una persona attratta dalla mondanità. I vernissage, le prime, i festival li ho sempre trovati una necessità faticosa. Una parte inevitabile ma non piacevole del mio lavoro”.

Immagine tratta dal web

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