Alessandro Galvani, “La cena dei filosofi”

DI MARIO MESSINA

Che il vetriolo possa diventare l’ingrediente principale di una cena è cosa assai probabile. Che il fiele possa diventare la bevanda principe di un convivio lo è altrettanto.

Soprattutto quando invidia ed un (non troppo) mascherata competitività non attendono occasione migliore per manifestarsi.

Questo non è improbabile che accada anche nelle cene delle famiglie più rispettabili. Di sangue così come di lavoro.
Il fatto di appartenere all’ aristocrazia dell’intellighenzia non esula da questo rischio. L’ eventualità incombe pure su la creme de la creme dei pensatori di mestiere: i filosofi.

Una cena di pensionamento il campo minato. Due outsider (un ingegnere ed una fotografa) le micce.
È, così, una domanda dal sen fuggita, ad inizio convivio, a dar fuoco alle polveri.

I commensali, tra una prelibatezza e l’altra, si trovano, inaspettatamente a gestire la pietanza apparentemente più semplice ma al contempo più indigesta: cosa è la filosofia?

L’autore, tramite l’espediente di un moderno simposio (di platonica memoria), riesce a dar vita ad una sorta di “bignamino” di filosofia affidando a ciascuno degli oratori il compito di rispondere al quesito, enucleando la questione nelle sue molteplici declinazioni.

Il tutto, comunque e sempre, in maniera tale da non risultare eccessivamente ostico per i non addetti ai lavori.
Chi ha un minimo praticato questa disciplina al liceo non avrà, infatti, grandi difficoltà nel seguire i ragionamenti offerti.

La filosofia si presenterà, così, a seconda dei casi, come quel settore del sapere in cui convivono “stupore e timore”; quel perenne domandare che “conduce alla felicità”; quella estrema volontà regolatrice della realtà che ambisce al “dominio del reale”.

Ma non tutto presenta rose e fiori.
Questo gigante, per alcuni, ha i piedi di argilla. Un gigante che si specchia nel propri discorsi inaccessibili, distanti dalla realtà. Teoresi speculativa più vicina all’ iperuranio che non alla vita di tutti i giorni.

Elaborata da maschi con la testa rivolta ad un passato mitico. Uomini che non vogliono cambiare il mondo perché non sanno interpretarlo.
Lontani dai nuovi temi che la modernità impone.

Un j’accuse stimolante ma che, a mio modesto parere, non centra esattamente il bersaglio.

Che andrebbe trovato non nella disciplina ma nei suoi epigoni.
Retori in una torre d’avorio.

Immagine tratta dal web

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