Andare indietro per andare avanti

DI GIOVANNI BOGANI

6. Nice Riquier

Sono le quattro e mezza quando arriviamo a Nizza. Faccio aprire il portellone del bus verde. Il mio trolley c’è ancora. Il pullman riparte. Un piazzale, da qualche parte nel mondo. vuoto. È luglio, dopo pochi minuti c’è già un piccolo chiarore nell’aria.

Guardo il telefono, con Google maps cerco la stazione del treno Nice Riquier. Ho visto che è la più vicina. Inizio a camminare. Qualcuno sta già portando fuori il cane, e mi guarda con uno sguardo poco amichevole.

La stazione non è una stazione, è un casottino con un binario. C’è una specie di tabaccaio, all’inizio della palazzina. Una donna, dentro. “J’ouvre à six heures”, mi dice. Sono le cinque e dieci. Dove compro il biglietto? “A la machine”. Vado alla macchina dei biglietti. C’è uno strano meccanismo antico, una rotellina verde da girare e sullo schermo devi premere quando appare la tua stazione. Poi ruoti ancora la manopola, e sullo schermo appare “Prima classe” e “Seconda classe”, tu clicchi. E così via. Un touch screen de fero. Primordiale. Che quando arrivo a pagare rigetta la mia carta di credito.

Anche il bancomat. Rifiuta anche quello. Non so che cosa fare. Non ho contanti, ho una banconota da cinquanta euro che la macchina non prende. Solo monete, e non dà resto.

Sopra una piccola scalinata c’è una ragazza che sta aspettando il treno. Non me ne ero accorto. Somiglia a una figura di Botero. Ha le gambe come piantate nella terra, è vestita di nero. Le chiedo se mi può cambiare una banconota da cinquanta euro, o se ci sono altri modi per fare un biglietto per Cannes. Lei, senza battere ciglio, mi paga un biglietto da 7 euro e 20 centesimi. Dice “poteva capitare a me, non ti preoccupare”. E io non so come rimborsarla, non so come ringraziare. Mi sembra incredibile tutto questo.

Cinque e mezza. Salgo le scalette fino all’unico binario. Lei ha camicia bianca, gonna nera, scarpe nere. Sembra l’agente segreto sovietico col puntale avvelenato nella scarpa in “007 Dalla Russia con amore”. Capelli neri lisci raccolti in una coda. L’aria serissima. Come per una missione impossibile. Parla al telefono, concitata. Ma non parla in francese. Di francese colgo solo qualche parola.

7. Andare indietro per andare avanti

La ragazza di Botero parla al telefono, in cima alla scalinata della Corazzata Potemkin. È sempre più agitata, fa vibrare la mattina ancora intirizzita, alle cinque e mezza. Non capisco una parola di quello che dice. Solo mi sembra di percepire “mama”, a un certo punto.

Il treno per Cannes passa alle 6:19. Fa tutte le fermate.

Salgo la scalinata Potemkin. Guardo la ragazza di Botero, e le parlo. Non sono fatti miei, non dovrei dirle nulla. “Je vous remercie encore”, le dico. E le chiedo se ha qualche problema. Sì che ce l’ha. Anche lei deve andare a Cannes, prende servizio alle 6:40. Ha perso il treno precedente, e quello che tutti e due aspettiamo arriva, per lei, troppo tardi. Così tardi che perderà il lavoro. Arriverebbe all’hotel in cui lavora quaranta minuti dopo. Ed è lei quella che deve aprire, quella che deve gestire gli arrivi.

Telefona ancora in quella strana lingua che a me sembra russo, ma non mi sembra russo. Poi in francese: chiede un taxi, con la voce molto disinvolta, professionale. Resta in attesa. “Comment? Quatre-vingt euros? Merci, je ne peux pas me permettre cette chiffre”. Ottanta euro. Ottanta euro per andare da Nizza a Cannes. Alla telefonata successiva, gliene chiedono cento.

Non c’è nessun altro sulla banchina, solo le traversine della ferrovia. Un display annuncia un treno, ma nella direzione opposta. Io vorrei aiutarla, penso che potremmo dividere il taxi, quaranta euro per uno, lei salva, tutti felici. Ma mi viene un’altra idea. Mentre il treno che va nella direzione opposta sta per arrivare, controllo sul telefono. questo treno in arrivo va alla stazione centrale di Nizza, a Saint Augustin. Controllo sul cellulare, in un sito francese di treni, se da Saint Augustin ci sono treni veloci per Cannes. Mi sembra di capire che ce ne sia davvero uno, che parte alle 6:05, cinque minuti dopo l’arrivo del nostro alla stazione, se tutto va bene. Quel treno arriva a Cannes all’ora giusta, o quasi: avrebbe due minuti per raggiungere l’hotel. Le spiego tutto, in fretta perché dobbiamo decidere subito. “Se vuole, lo prendo anche io con lei, e andiamo a Cannes insieme”. Il treno intanto è arrivato. Lei mi guarda, saltiamo su. Andiamo dalla parte opposta a Cannes. Lei si è fidata. Io spero che abbia fatto bene. Se ho pensato una cazzata, la licenziano per colpa mia.

8. Grazie, Mario…

La stazione St. Augustin è grande, molti binari, molti treni. Vedo sul display MARSEILLE 6:05 VOIE 7. Via, corriamo! Sono più veloce della ragazza a capire i treni, anche se non sono nel mio paese. Forse perché con i treni sono cresciuto: biglietti, stazioni, attese. Avevo anche il libro giallo con gli orari di tutti i treni d’Italia, lo leggevo come un libro di avventure. E allora via: sottopassaggio, riemergere, salire sul treno, sedersi. E guardarsi finalmente in faccia.

Lei sembra una suora, capelli lisci nerissimi, una camicia bianca stiratissima, gonna nera, giacca nera, scarpe nere con i lacci. Si chiama Jamila, dice. “Vous êtes française?” le chiedo, sapendo che non lo è. “Tchechène”, dice. Cecena. Avrà trentacinque anni. È venuta qui a venticinque. E penso che da quando aveva dieci anni, ha visto la guerra a casa sua. Crescere in tempo di guerra. Non posso capire, non posso immaginare. Mi parla dell’hotel in cui lavora, dieci minuti dalla stazione di Cannes, cinque se corre. È felice di essere salva. Il treno corre lungo il mare, lungo la Costa azzurra con i palazzi anni ’70, bianchi, il mare così blu, le palme. La vita sembra quasi bella.

Siamo quasi a Cannes. Davanti alla porta del treno la gente aspetta in posa da centometrista ai blocchi di partenza. Una ragazza molto bella, capelli neri ricci enormi, forse tunisina o marocchina. Truccata alla moda. Ma anche lei vestita come Jamila, camicia bianca luccicante, pantaloni neri. Ai piedi quelle che mi sembrano ciabatte di spugna, ma forse sono cose alla moda. Pochi secondi prima si era alzata di scatto, e il sedile si era richiuso, come le poltrone dei cinema.

Cannes Gare SNCF. Le porte si aprono, la ragazza con gli enormi capelli neri si lancia fuori, e faccio solo in tempo con la coda dell’occhio a vedere un oggetto bianco nell’interstizio del sedile da cui si è alzata. Riesco solo a urlarle “Mademoiselle! S’il vous plait…”.

Lei è già scesa. Io vado al suo sedile, e vedo che la cosa bianca è un iPhone. Il secondo che trovo in due giorni! La ragazza al mio urlo si è voltata, passo l’iPhone a un ragazzo che glielo passa, e lei spalanca gli occhi neri e ringrazia tantissimo il ragazzo. A me viene in mente il film “Non ci resta che piangere”, quando la vecchietta continua a ringraziare Massimo Troisi, anche se i piaceri glieli ha fatti Roberto Benigni. “Grazie, grazie, grazie, grazie Mario…”.

9. Wolf

Ciao Jamila, ciao ragazza magrebina, anche se hai detto “Grazie, Mario” all’altro. Io sono felice, qui. Bentrovata, Cannes.

Trovo persino il bus che va verso casa. Tutto come due anni fa. Come tre anni fa. Come dieci anni fa. La casa dove dormirò i prossimi dodici giorni. Alle sette e dieci il sole è già alto contro l’inferriata e contro il display dell’apriporta, non si vede niente, lo hanno cambiato in questi due ultimi anni. Cerco di ricordarmi il codice di apertura della porta, l’ultimo ostacolo prima di entrare. Dopo un bel po’ di tentativi il portone si apre, e una voce metallica dice “Vous. Pouvez. Entrer”. Sembra la voce di una psicopatica.

Sono a tre chilometri dal Palazzo del cinema. Mi faccio forza e scendo i cinque piani, esco di nuovo, vado a fare l’accredito, tutti i riti del primo giorno del festival. La sala stampa è ancora quasi vuota.

Nel pomeriggio incontro un critico che conosco da trent’anni. Ha i riccioli, adesso sono riccioli bianchi. Ama il vino e il cinema d’autore, ama fare tardi la sera con i suoi amici spagnoli, in qualche bar del Lido o di Cannes. Viene in auto, sia a Cannes che alla Mostra del cinema. Ci siamo visti invecchiare. Qualche volta lui mi ha visto con una bella ragazza, qualche volta l’ho visto con una ragazza bellissima. Ora siamo soli, tutti e due.

È nervoso, scoraggiato. Il suo computer ha finito la batteria, ha con sé il cavo per ricaricarlo ma non ha l’adattatore per le prese francesi, che sono come le nostre ma hanno solo due fori, e non tre. Come da noi tanti anni fa. E il suo computer ha una spina a tre “punte”. Sembra una cazzata, ma non può scrivere il suo articolo. Ha cercato un adattatore ovunque, ma non ne hanno. Neanche alla Fnac, i magazzini in rue d’Antibes, dove hanno tutto. Ha provato anche lì.

Oggi mi sembra davvero di essere Wolf, che risolve problemi: dallo zainetto tiro fuori un adattatore. Da anni me li porto sempre dietro, quando vado all’estero. Mi ringrazia tantissimo, dice che me lo riporterà stasera. Io non glielo dico, ma me ne sono portati due. Così, dovesse anche dimenticarsene, io posso attaccare il mio minuscolo e combattivo Lenovo alle maledette prese francesi, e scrivere le mie stupidaggini sul festival. Alé. On y va.

10. Sala Bazin

Tutto è più o meno uguale: la sala stampa, gli interni color crema del Palazzo del cinema, come il salone di una brutta nave da crociera. Il mare azzurro intenso dalle finestre della sala stampa, che ti fa venir voglia di essere fuori. Come quando a scuola vedevi gli alberi dalle finestre dell’aula: e mentre facevi il compito in classe, sognavi di essere libero, di giocare sena pensieri come quei bambini nella piazza.

Tutto più o meno uguale, l’aria anni ’70 del Palazzo, in fondo rassicurante. Ti sembra che non ci possano essere novità letali, nella tua vita, nel cinema; nell’invasione silenziosa e implacabile dei nuovi giornalisti, che hanno parole più affilate delle tue. Tutto più o meno uguale, tranne le mascherine, i controlli del Green pass. Ma è giusto che controllino, speriamo che il virus non passi, che non entri, che non faccia del male a nessuno di noi. Tutto più o meno uguale. Le ragazze del banco Nespresso, sempre più belle, ogni anno più belle e più distanti. Ti danno il café o il jus d’orange: ma non riuscirai mai a parlarci, come riuscivi ancora a fare qualche anno fa.

Tutto più o meno uguale, anche la sala Bazin polverosa,ventre oscuro del festival di Cannes: meno posti della sala Debussy, un po’ più sbracata, meno glamour. A me piace quella. E accanto, il bagno. Vado al bagno, è stata una giornata lunga, da ieri sera, dal Flixbus, la partita con la Spagna, al taxi fatto risparmiare a Jamila, all’iPhone trovato alla ragazza, all’adattatore elettrico per il mio amico dai riccioli bianchi. Ora, finalmente, per due minuti non penso a niente.

Faccio la fila per entrare in sala Bazin. Mentre il ragazzo mi scannerizza il badge, mi sorpassa un giornalista, che dice a un impiegato “S’il vous plait, j’ai trouvé un portefeuille dans le bain…”. Penso; toh, qualcuno ha perso il portafogli. Con la coda dell’occhio vedo che è quello che tengo sempre nello zaino, dove tengo carta di credito, bancomat, carta di identità, tessera sanitaria. Mi porto dietro i documenti, perché non si sa mai, dovessi essere controllato, finire in ospedale o in questura…

Se avessi perso tutto questo, il primo giorno di festival, avrei dovuto scegliere: rimanere, senza carte di credito e senza documenti, o cercare di tornare, di passare la frontiera, sempre senza documenti. Non voglio neanche pensarci. Quanto avrei pagato per evitarlo? E invece, bastano un sorriso grato, raggiante, e mille “merci” un po’ a tutti. E poi, mi viene in mente che, imprevedibilmente, qualcosa delle bizzarre quasi buone azioni delle mie ultime 24 ore mi è tornato indietro, e con gli interessi.

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