Bernardo Atxaga, Il figlio del fisarmonicista

DI MARIO MESSINA

Bernardo Atxaga,
Il figlio del fisarmonicista.
21 lettere editore

<<Io sono David, ma tutti mi chiamano il figlio del fisarmonicista>> (pag.11).
È con queste parole, da cui scaturisce il titolo, che il libro si apre.
<<Accanto alla lavagna, il foglio del calendario indicava che era il settembre del 1957>> (pag. 12).
Bastano poche righe, però, per scoprire che: <<Quarantadue anni più tardi, nel settembre del 1999, David era morto>> (pag.12).

È Joseba a pronunciarle.
L’amico fraterno volato negli States dai Paesi Baschi per presenziare al funerale.
E con un incarico speciale: <<Riscrivere ed ampliare le sue memorie. Non come chi butta giù una casa e al suo posto ne costruisce una nuova […] >> (pag.27).
Perché: <<David pretendeva di raccontare tutto, senza lasciare vuoti; ma alcuni fatti, che io conoscevo di prima mano e che mi parevano importanti, non avevano il rilievo necessario>> (pag.27).
Atxaga fa, così, affermare a Joseba: <<Il libro contiene le parole che lasciò scritte il figlio del fisarmonicista, e anche le mie>> (pag.29).

I due amici presentano una identità similarmente composita.
Sono baschi. E hanno vissuto il periodo franchista.
Si è trattato, così, di esercitare una duplice resistenza.

Come quella di tutto il movimento rivoluzionario basco:<<Il movimento per la liberazione di Euskadi manifestava nei suoi comunicati che i due problemi fondamentali a cui pretendeva di dare una soluzione erano, da una parte quello nazionale e, dall’ altra, quello sociale […]>> (pag.453).

A differenza, però, di tanta saggistica e memorialistica sugli anni Settanta questo romanzo presenta una notevole specificità.
L’aspetto più intimo risulta prevalente per buona parte della narrazione.
Quello più politico compare, invece, nella parte finale e con tratti mai enfatici.

Centrale e preponderante è nel libro, infatti, la descrizione della fase adolescenziale della vita di David. Quella in cui la sua personalità prende forma.
Come lo stesso afferma: <<La mia prima patria, la patria della mia infanzia e della mia giovinezza, fu un luogo chiamato Obaba>> (pag.77).
Vengono, così, in considerazione i primi amori e gli intensi rapporti amicali.
Ma, soprattutto, assume carattere preminente il rapporto conflittuale che David instaura con il padre Angél.
Un uomo dalle simpatie fasciste e da cui il figlio cerca in ogni modo di prendere le distanze.

Come egli stesso afferma a pagina 112: <<Mi sono venuti dei dubbi rispetto a mio padre, per il momento preferisco non vederlo>>.
Un tarlo che si fa sempre più fastidioso ed opprimente: <<Mi sono giunte notizie molto gravi di fatti accaduti durante la guerra, e ho un sospetto: mi domando tutte le notti se sono figlio di un assassino>> (pag.114).
In David è, infatti, sempre più forte la convinzione che il padre possa aver preso parte alla fucilazione di sette innocenti a titolo di rappresesaglia durante la Guerra Civile.
Obaba è un piccolo centro ed è inevitabile che David possa trovarsi di fronte ai discendenti di coloro che furono fucilati.

Al conoscente Cesar dichiara, omettendo non a caso di usare la parola “padre”, ad esempio: <<E ciò che mi preoccupa è il grado di responsabilità che possa aver avuto Angél nell’assassinio di tuo padre e di tutti gli altri>> (pag.187).
David è giovane e comincia così a maturare un senso di ribellione che, per ragioni anagrafiche, altri hanno già maturato.

Quei sette innocenti andavano inseriti, infatti, in un disegno del terrore franchista ben più ampio e sistematico che troverà in Guernica il suo apice: <<Vivevo vicino a Guernica- un aereo avrebbe percorso in dieci minuti la distanza da a Obaba a lì […]. Molti abitanti di Obaba avevano impugnato le armi. Ma io lo ignoravo.

Se qualcuno mi avesse detto allora che i Dornier e gli Heinkel nazisti avevano ucciso a Guernica centinaia di donne e bambini, sarei rimasto a bocca aperta>> (pag.97).
Una strage così atroce da indurre una generazione a impugnare le armi anche a costo di mettere a repentaglio la propria vita.
Un eroismo che trova voce, ad esempio, nel compagno di lotta Triku che afferma: <<Quando mi tolsero il cappuccio, mi ritrovai in una stanza vuota. Non c’erano finestre, solo un lucernaio sul tetto.

Con me c’erano tre poliziotti, non molto giovani. Facendo finta di niente mi portai il braccio sinistro al costato, come per grattarsi, e provai una grande gioia sentendo che il pezzo di stoffa di Guernica era ancora all’interno della camicia. Ricordai le quasi duemila persone ammazzate sotto il bombardamento, specialmente le mie due zie, che allora erano bambine, e recuperai le forze per affrontare le torture>> (pag.498).
A ben riflettere si tratta dello stesso motivo che indusse, qualche decennio addietro, molti giovani italiani ad aderire alla Resistenza dopo le stragi di Marzabotto o Sant’Anna di Stazzema, tanto per citare i casi più eclatanti.
Se non fosse che il “nuovo vento” che spira ha deciso, per ragioni opportunistiche, di riscrivere la storia.
Infangando quei giovani e con una malcelata nostalgia per i vinti.
Nonostante questi ultimi fossero dei vili assassini.

Immagine tratta dal web

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