DI GIOVANNI BOGANI
Com’era bello però, papà, quando andavamo in cantina, in quel regno ignoto a mamma, la camera oscura.
Una luce verde, tenue al limite del buio eterno, permetteva a stento di vedere le nostre sagome. Al centro della stanza, l’ingranditore, un totem posato sopra il tavolo. Mettevamo i fotogrammi davanti alla sua lente, e l’immagine si proiettava giù, sul tavolo. Ma in negativo.
Era bello cercare di indovinare se fosse davvero bello quel sorriso di donna tutto nero. Era così strano vedere quel mondo tutto al contrario, quel mondo grigio dove i capelli neri di una donna erano bianchissimi, e una spiaggia invasa dal sole era nera.
Poi nel buio tiravamo fuori il foglio di carta sensibile, lo mettevamo lì, dove l’immagine appariva. E davamo luce, per cinque, sei, sette, dieci, quindici secondi. Contavamo: “centouno, centodue, centotre”, perché un secondo dura più della parola “uno”, ma quasi quanto la parola “centouno”. Zac!, luce, zac! Buio.
E poi via, a immergere quel foglio nel liquido giallastro dello sviluppo, e aspettare finché qualcosa non appariva dal foglio bianco, qualcosa che aveva una forma, una bellezza, un fascino, il fascino del mondo che si creava, delle persone che tornavano davanti agli occhi, bambini che giocavano, piazza della Signoria, una scena al mare, i cigni alla Fortezza.
In quel foglio dentro il piccolo mare della vasca dello sviluppo sembrava apparisse qualcosa di inafferrabile, qualcosa di estremamente magico. Poi, la vaschetta del Fissaggio fermava quell’immagine, altrimenti quel foglio sarebbe diventato completamente nero.
Nella vaschetta del fissaggio tutto diventava definitivo, certo, nitido, composto, e sicuramente meno miracoloso. Il miracolo era vedersi formare qualcosa, qualcosa che non sapevi nemmeno tu che forma definitiva avrebbe preso. Un po’ come la vita, quando hai sette o otto anni.
Poi tornavamo su in casa, con il nostro bottino, e mettevamo le foto appese, ad asciugare sopra la vasca. Occupavamo il bagno, con quel bucato fatto di immagini, le foto come panni stesi. Missione compiuta, avevamo creato le foto del secolo. Domenica pomeriggio, o forse anche il pomeriggio di altri giorni. La gioia di creare insieme.
A guardarle lì, stese, che un po’ si arricciavano, non sembravano più così magiche, quelle foto. Ma giù, nella penombra, quando affioravano, strappate al Nulla, erano come il miracolo della nascita, erano ciò che avevi visto, una domenica mattina, e che adesso veniva al mondo, dai tuoi occhi, papà, arrivava agli occhi di un altro. Difficile raccontare questo miracolo, a chi non lo ha conosciuto.
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Immagine tratta dal web
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