DI GIOVANNI BOGANI
Ieri ho chiamato Carlo Verdone chiedendogli un’intervista. Quasi sempre, per attori che hanno fatto mezza parte in una fiction, o registi di un corto presentato al Vattelapesca film festival, c’è un ufficio stampa che ti dice “NO”. “Non ha niente IN PROMOZIONE”, “si è troppo esposto/esposta sui media”, “c’è prenotata una copertina su Vanity Fair/Time/Tavarnelle ieri, oggi e domani”, “c’è l’esclusiva con Repubblica/Corriere/Il mensile dei veterinari molisani”. E tu resti a bocca asciutta, e ancora una volta, non lavori.
Ecco. Con lui è andata diversamente, tutte le volte che gli ho chiesto il favore di darmi un’intervista.
Qui sotto quello che è venuto fuori dalla chiacchierata.
“Ah, che bella vittoria di Sinner!”.
Jannik Sinner ha appena vinto l’open di Sofia, e Carlo Verdone si è gustato il match come se fosse stato un film. “E’ un piacere vederlo giocare: ha la maturità di un campione, la calma, la tenacia e la compostezza. È leale, ha classe da vendere, e ha compiuto da poco diciannove anni! Un fenomeno”.
Ne compirà settanta invece lui, Carlo, dopodomani. “Come festeggio? Eh, non festeggio! Rimando tutto a dopo la pandemia. Quando la vita finalmente si aprirà, e torneremo ad avvicinarci l’uno all’altro”.
È da solo, in casa. Ma idealmente, con lui, c’è tutta l’Italia. Carlo Verdone non è solo un regista, né solo un attore.
È un pezzo di storia dell’Italia. È il nostro specchio. Siamo noi i suoi personaggi, i bulli di quartiere, i teneri, gli impacciati, le donne fragili e bellissime, i tipi “Magda? Lo vedi che la cosa è reciproca?”, quelli che “no, non mi disturba affatto”, i candidi “nonnaaa! E tiraje su le gambe, e posaje giù le gambe…”, i coatti che “dai, famolo strano!”.
Ci siamo visti nei suoi film. Che strada facendo hanno scoperto, oltre alla comicità pura, anche la malinconia, la naturalezza, l’intimismo. Benedetto il giorno che lo abbiamo incontrato.
Qual è il momento chiave della sua vita artistica?
“E’ stato un calcio nel didietro. Me lo dette mia madre. La sera della ‘prima’, mi prese il panico: volevo mollare tutto. Mia madre mi rispose: ‘Se non vai subito a teatro ti mollo un calcio in c… Poi prese la borsa con i miei miserevoli ‘attrezzi’ scenici, un paio di occhiali, un cappello, li scaraventò nel pianerottolo e davvero mi mollò quel calcio, gridandomi: ‘Un giorno mi ringrazierai!’. Non ho ancora finito di ringraziarla”.
In quarant’anni, che cosa è cambiato nello spettacolo, nel modo di far ridere?
“Oggi siamo tutti meno liberi. Il ‘politicamente corretto’ è diventato una dittatura, blocca la creatività e la fantasia. Oggi devi stare attentissimo a scrivere una scena: c’è sempre qualcuno che si offende, una categoria che protesta. In un mondo in cui, invece, sui social mezzo mondo offende l’altro mezzo, e non ci puoi fare niente”.
Il “politicamente corretto” ha messo un freno alla creatività?
“E certo! Ovviamente, è giustissimo difendere le categorie più deboli. Ma oggi, con l’ansia di proteggere ogni ‘differenza’, è come se ci fosse un conformismo dell’anticonformismo. C’era più libertà quando c’era la censura: si facevano film più scandalosi”.
Era più facile fare ridere prima o oggi?
“Prima. Adesso, questo non si può dire per un motivo, quest’altro per un altro motivo: si offendono i magri, i grassi, i belli, i brutti, i bianchi, i neri…”
Lei ha sempre osservato molto la gente. Come vede oggi le giovani generazioni?
“Mi riuscirebbe difficile rappresentarli: da una parte, i miei coatti sembrano educande, al confronto. Tutti sono aggressivi: i modelli sono ‘Gomorra’ e i vari romanzi criminali. Ho letto temi di ragazzini che scrivevano ‘Il mio sogno è dominare sul Prenestino’, ‘il mio sogno è vendicarmi su mio padre’. L’aggressività è un modello, il bene è scomparso dai radar”.
C’è la fede nel suo orizzonte di pensiero?
“La fede non è mai data una volta per tutte. È un percorso continuo di dubbio e di conquista. Mi ha aiutato molto parlare con un personaggio insospettabile”.
Chi?
“Il cardinale Ersilio Tonini, uno dei grandi intellettuali della Chiesa. Lo andavo a trovare a Ravenna, dove era arcivescovo, e abbiamo parlato molte volte, a lungo. Mi diceva: ‘la chiave di tutto è nella preghiera’. Se tu non telefoni, alle persone, non ci puoi parlare, no?”.
E lei?
“Dicevo: sì, ma di là non c’è nessuno che risponde. E lui: ma Lui non può rispondere, non è umano. Le risposte te le dà lo stesso, nell’anima. E io lo faccio: sempre più spesso, mi rivolgo a un’entità superiore. Ascolto. A volte salgo su in terrazza, osservo il cielo, scatto delle fotografie al cielo, che è l’umore di Dio. Scattare quelle foto è per me un modo di pregare”.
Le donne. Lei ha creato tanti ruoli femminili per Margherita Buy, Laura Morante, Asia Argento, Claudia Gerini… Oggi che spazio c’è per le donne nei film?
“C’è: ma mancano attrici nuove davvero carismatiche. Il divismo non c’è più, se lo sono preso i social. I divi sono quelli che hanno più follower, essere bravi conta poco”.
Direbbe che la vera “diva” oggi è Chiara Ferragni?
“E’ una ragazza molto in gamba, bella, capace di fare impresa su se stessa. Non la sottovaluterei”.
Che bilancio fa, della sua vita, a settant’anni?
“Se mi avessero detto che avrei fatto quello che ho fatto, avrei firmato non una volta, ma 750mila volte” Ho avuto molto più di quello che avrei mai potuto immaginare. La mia carriera? Beh, forse non ho fatto tutto quello che avrei potuto. Ma a volte bisogna pure accontentarsi”.
Questi mesi di covid come li ha vissuti?
“Con angoscia, come tutti. Ma senza fermarmi. Non potevo girare, e allora ho scritto. Come un matto. Ho scritto il mio terzo libro, raccogliendo una virtuale scatola di ricordi, e ho scritto ‘Vita da Carlo’, la mia prima serie tv”.
Come è stata la sua “prima volta” a confronto con la narrazione lunga della tv?
“Pensavo fosse più difficile: invece è stato facilissimo. Abbiamo scritto dieci episodi in un mese e mezzo, poco più. Sarà una serie per Amazon Prime, scritta con Nicola Guaglianone, Menotti e Pasquale Plastino. Racconto tante cose assurde che mi sono capitate nella mia vita, un po’ romanzandole, un po’ no”.
Come vede Roma, oggi?
“La vedo dal terrazzo di casa mia. La vedo malinconica, depressa. Buia. Con la Raggi avevamo avuto qualche speranza. Ma non è successo niente. Non ‘poco’. Niente. Roma non è diventata una città europea. Anzi: prende fuoco un bus al giorno, la metropolitana ha avuto tre fermate chiuse per un’eternità… ma si può andare avanti così?”.
In questi mesi di covid, abbiamo assistito a scontri anche cruenti fra virologi. Lei, appassionato di medicina, con chi sta?
“A me piace molto Massimo Galli. Mi sembra il più equilibrato, capace di dire la verità senza fronzoli, senza guardare in faccia a nessuno. Noi non vogliamo sentirci dire le cose come stanno, però è necessario. E lui lo fa”.
Si è operato alle due anche, tutte e due insieme.
“Eh sì! Alla faccia di quelli che mi dicevano ‘è ipocondriaco’. Ho preso il coraggio e mi sono fatto aprire in due “.
In che senso?
“Mi sono fatto rompere a martellate, e ricostruire. In sala operatoria c’erano martelli, seghe e trapani. Sono andato da uno sfasciacarrozze, praticamente. ‘E ora’, mi ha detto il chirurgo, ‘le sue anche sembrano due cilindri di Aston Martin’. Bene, gli ho detto. Così ho qualche cosa di 007 pure io!”.
Giovanni Bogani per La Nazione
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