Caro Vincent

DI ANTONIO MARTONE

 

Intorno all’1:30 del 29 luglio 1890, Vincent van Gogh moriva dopo essersi sparato un colpo fra stomaco e torace: aveva 37 anni.
Quello stesso giorno, l’artista aveva confessato a suo fratello Theo, sopraggiunto prontamente al suo capezzale, che “la sua tristezza non sarebbe mai finita”.

Le sue tele andarono quasi tutte disperse: furono considerate, così come era accaduto in vita, delle croste cupe e tristi, sostanzialmente insignificanti, prodotte a scopo autoterapeutico da un malato di mente.
Ci vollero almeno trent’anni prima che Vincent cominciasse a diventare quello che è oggi, ossia uno degli artisti più importanti della storia dell’umanità.

Quelle stesse tele, considerate nel corso della sua vita assolutamente prive di valore, sono contese oggi a colpi di decine di milioni di euro. Grazie a Van Gogh, migliaia di persone non smettono di guadagnare denaro e di godere della bellezza che il suo sangue martoriato ha prodotto.

Come perdonare alla società il fatto di essere cieca e sorda, e sostanzialmente stupida, davanti al genio?
Di tutte le sue colpe, questa, questa è la meno perdonabile!

E, infine, perché – mi chiedo – c’è bisogno sempre di un immane “sacrificio” per produrre una favilla di bellezza?

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Foto mia – ritrae la stanza di Vincent, da lui dipinta, e relativa al suo soggiorno ad Arles, dove era andato per curare i suoi problemi nervosi.
È conservata presso il Museo d’Orsay a Parigi.

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