Ciao Lina Wertmuller, il mio ricordo per te

DI GIOVANNI BOGANI

Ieri alle 12:00 leggo che è scomparsa Lina Wertmuller. Mi vengono in mente tutte le volte che l’ho vista a Capri, al Capri Hollywood film festival. La volta che l’ho intervistata, con una videocassetta Hi8 che chissà dove è finita, adesso.

Poi dopo un’ora mi chiedono un pezzo per il giornale. Molto alla svelta, che entro le 16 deve essere online. Cerco di farlo, sforando un po’ sui tempi e facendo incazzare il capo. Però spero di averci messo qualcosa di vero. Il pezzo è questo qui.

“So che un giorno o l’altro morirò, e non me ne preoccupo. Mal che vada mi farò un gran bel sonno”, aveva detto in un’intervista recente. “Me ne andrei, comunque, da commensale sazia. Ho avuto una vita fortunata, un lavoro che è stata la mia passione, l’amore di Enrico, una figlia meravigliosa. E in tutto questo, sono rimasta un’anima libera”.

Se n’è andata, a novantatré anni, Lina Wertmuller, anima libera. E regista italiana fra le più importanti: la prima donna a ricevere una nomination all’Oscar – per “Pasqualino Settebellezze, nel 1976 – e la prima italiana a ricevere un Oscar alla carriera, assegnatole nel 2019. Anche in quella occasione, sul palco, non rinunciò a stupire: “Ma questo Oscar! Perché questo nome maschile? Chiamiamolo con un nome di donna… chiamiamolo Anna, per esempio, perché no?”.

Lina Wertmuller. L’insolito destino che travolse il cinema italiano. La sua arte, che seppe coniugare ironia e riflessione politica, commedia e lotta di classe. Il suo cinema d’amore e d’anarchia. E la sua figura inconfondibile: piccola, minuta, con un carattere di ferro, i capelli bianchi cortissimi e quegli occhiali dalla montatura bianca. Quasi un rovescio dei colori di Woody Allen. “Di quegli occhiali bianchi, alla fabbrica ne ordinai cinquemila pezzi”, ricordava.

Che cosa ha portato Lina Wertmuller al modo in cui l’Italia ha guardato se stessa, al modo in cui l’Italia ha raccontato – attraverso i film – la propria storia e le proprie contraddizioni? Ha portato un cinema grottesco, visionario e insieme molto concreto. Un cinema che univa Fellini e Eduardo.

E non sono due nomi a caso. Con Fellini, Lina Wertmuller ha praticamente imparato il mestiere. È stata aiuto regista ne “La dolce vita”. E ha saputo tenere a bada lo scetticismo della troupe, quando elettricisti e fonici si guardarono negli occhi, col cinismo di chi ne ha viste tante, dicendo: ““Aoh! C’avemo l’aiuto regista cor visone”.

Con il visone, sì, perché Lina veniva da una famiglia alto borghese. Portava con eleganza un nome chilometrico, come sarebbero stati i titoli dei suoi film: Arcangela Felice Assunta Wertmueller von Elgg Spanol von Braueich. Ma oltre al visone, Lina aveva grinta da vendere. E voglia di farcela. Quando Fellini, in taxi con lei, intravede nella corsia opposta un taxi il cui passeggero ha “una faccia giusta”, le ordina: “scendi e segui quel taxi!”. E lei, come niente fosse, si precipita all’inseguimento, per procurare a Fellini una faccia. Anche questo è cinema.

Eduardo, come tutta Napoli, sono entrate prepotentemente nel suo cinema: per lei, che amava il Sud, che sentiva forti le sue origini lucane, i suoi legami con la commedia di De Filippo. E che nel 2015 ha ricevuto, di Napoli, la cittadinanza onoraria. Mentre ogni inverno amava rubare qualche manciata di sole nelle strade di Capri, da presidentessa onoraria del festival “Capri, Hollywood”, con i divi americani che la veneravano come una regina.

Lina Wertmuller, soprattutto, ha saputo disegnare una donna nuova. Dapprima, la ha disegnata nell’irriverenza, nell’energia, nella imprevedibile verve di una Rita Pavone assolutamente rock nel “Giornalino di Gian Burrasca”: solo otto episodi televisivi, nel lattiginoso bianco e nero del 1964/65, ma sufficienti a fare la storia della televisione.

Rita Pavone era, lì, una figura di donna – vestita da uomo, peraltro – in anticipo di decenni sui tempi. Del resto, era stata proprio Lina una perfetta Giamburrasca: cacciata da undici scuole, con una “fedina penale” sporchissima, di collegio in collegio, finché non trovò pace nello studio del cinema.

Poi, ha dato all’Italia un’altra donna meravigliosa: Mariangela Melato, che con Giancarlo Giannini forma una coppia perfetta in “Film d’amore e d’anarchia” e soprattutto in “Travolti da un insolito destino”. In quel film, Mariangela Melato – che fino a quel momento sembrava destinata solo al teatro “serio” – si rivela autoironica e terribilmente sexy.

In quel film si mescolano, in un cocktail irresistibile, sesso e lotta di classe, erotismo e politica. Mariangela e Giancarlo sono lì, perduti in mezzo al mare, tutti i rapporti sociali sembrano saltati, fra il marinaio Giancarlo Giannini rozzo e peloso e la “sciura” milanese ricca, aristocratica, snob Mariangela Melato. Non c’è film d’amore più sensuale e più amaro, non c’è storia che racconti in modo più esatto il permanere delle differenze di classe, in un’Italia che sembrava volerle annullare, nel bel mezzo degli anni ’70.

La terza donna rivoluzionaria del suo cinema è proprio lei: lei che, sottovalutata in Italia, apprezzatissima negli Stati Uniti, riceve la stella nella Walk of Fame al 7065 di Hollywood Boulevard, e un Oscar alla carriera. Negli Stati Uniti, Lina è una leggenda: e al festival di Cannes, Leonardo DiCaprio fa di tutto per farsi delle foto insieme a lei. Per dire. La rivincita delle donne, il lungo percorso che le sta portando a pari diritti, pari rispetto e pari dignità nel mondo dello spettacolo, passa anche da lei.

Ha raccontato l’Italia, ha raccontato i ricchi e i poveri, ha raccontato il Nord e il Sud. “L’Italia è una cosa che ha i piedi in Africa e la testa nelle Alpi, quindi dentro c’è un mini continente”, diceva. “Non è facile riassumerli tutti, tanti colori, dialetti, lingue, abitudini”. Lei ce ne ha dato una fotografia perfetta.

Nella sua vita privata, un solo lunghissimo grande amore: quello per lo scenografo e pittore Enrico Job, un amore durato mezzo secolo. Nel 1991, quando Lina ha 62 anni, nasce Maria Zulima. “E’ nata dal nostro amore”, diceva Lina, senza spiegare troppo. “Maria è la figlia di Job e quindi è mia figlia”, ripeteva. E l’ha amata sempre: da bambina, l’ha inserita anche nei suoi film, piccola attrice. Da grande, Maria Zulima ha scelto altre strade. “Ha preferito fare la skipper in mezzo all’Oceano. Un po’ mi spiace, ma la capisco: sono un po’ come lei, anch’io amo andare alla ventura”.

Della morte non aveva paura. “Non so se ci sia un’altra vita: non ho mai vissuto la morte, non posso sapere come sarà”, ci aveva detto nell’ultima intervista. Le piaceva sdrammatizzare: ad una cerimonia dei Golden Globes, il regista Robert Altman si alzò, le si inginocchiò davanti e le baciò i piedi. “La verità”, disse lei spiegando l’episodio alla sua maniera, “è che ho dei piedi bellissimi”.

Immagine tratta dal web

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