Conflitti e incomprensioni

DI GIOVANNI BOGANI

L’ombrello

Quando pioveva, papà usciva senza ombrello. “Ma come fai?”. “Passo tra goccia e goccia!” rispondeva immancabile. Forse le prime volte, bambino, ci credevo anche, che papà passasse tra goccia e goccia. In effetti, mica sono tutte attaccate. Poi, come tutte le prove dell’invulnerabilità di papà, anche la possibilità remota che passasse fra goccia e goccia svanì. Ma tu, Giorgino, papà che sei sempre stato più giovane di me, anche quando uscivi verso un temporale non perdevi l’ottimismo, e dicevi dall’alto della tua meravigliosa sventatezza, rivestita però di profumo di scienza: “D’altra parte, l’uomo non è solubile”. E uscivi.

L’ombrello te l’ho visto portare pochissime volte. Una sera, invece, esasperato dalla mia rabbia giovanile, dal mio odio adolescenziale contro di te, contro la tua tosse continua e secca, contro la tua sventura, contro la tua incapacità di renderci felici, quella sera – avrò avuto diciotto anni, e tu poco più di cinquanta – nel momento più acceso di una lite, nel lungo corridoio, prendesti un ombrello dall’ombrelliera e ti mettesti in posizione di scherma, contro di me. Mi puntasti l’ombrello contro, come una spada.

Povero papà, ti difendevi contro un figlio pieno di rabbia e di ribellione, in anni di rabbia e di ribellione. Mica ce lo ricordiamo più, com’erano quegli anni. Erano anni di figli che odiavano i padri, di figli che se ne andavano via lontano, in autostop o in viaggi di diverso tipo, viaggi vertiginosi verso nuove conoscenze, nuove sensazioni, nuovi segreti. Viaggi che portavano spesso al crimine, ancora più spesso all’autodistruzione. Ero riuscito a salvarmi da tutto questo, ma non dall’odio. Non dall’odio verso le tue battute così antiche, da liceo classico anni Trenta. No, non eri fascista. Neanche il nonno, credo. Ma le tue battute con le citazioni dei classici greci – “Eschilo Eschilo, qui si Sofocle, ma attento! le scale sono Euripide, se cadi Tucidide” – che ti facevano tanto ridere, sapevano di corridoi di una scuola che non avrei mai potuto amare. La scherma, l’equitazione, i fratelli D’Inzeo che piacevano alla nonna, il fioretto che è più nobile della spada: non erano il mio mondo, non lo sarebbero stati mai. E tu, lì, in mutande, con un ombrello puntato come un fioretto, contro di me. Tremante di malattia e anche di paura. Che quel figlio diventato nemico, e diventato più grande di te, ti facesse veramente del male. Invece a me, a vederti con la canottiera e le mutande Cagi e l’ombrello, veniva un’infinita tristezza, e anche un po’ da ridere. Non mi perdonerò mai di averti spinto a questo.

Il sipario sul tuo volto

Tu, mamma, invece non attaccavi mai. Alzavi la voce, sì. Era la tua tattica numero uno: gridare e piangere. Ma la più pericolosa era la tattica numero due: mostrare un infinito dolore, una faccia impietrita di sdegno, di delusione irreparabile. Cadeva il sipario sul tuo volto, guardavi fisso un punto indefinito, probabilmente in un’altra dimensione, niente si muoveva nella tua faccia. La punizione più grande: simulavi l’annichilimento, come se la vita ti fosse stata tolta via di colpo. Come se nessuna azione fatta da tuo figlio potesse farlo ritornare quello che era, per te.

Diventavi una statua egizia, diventavi indifferente a tutto, sulla faccia ti compariva la scritta “è tutto inutile”. Non rispondevi più. O, dopo molte insistenze, rispondevi “eh, lo so io… Lo so io cos’ho”. E io, quando ero piccolo, non lo sapevo, non lo potevo intuire. Era come se tu non fossi più di questo mondo.

Anche papà si offendeva. Rimaneva nel suo studio – il “pensatoio” – per giorni, senza uscire se non per la cena. E io non ero grande abbastanza per tranquillizzarvi. Eravamo tre scariche elettriche sempre pronte a liberare la loro energia. Perché io ero tanto furioso? Ero capace di prendere a calci una panchina, mentre voi magari stavate parlando.

Oppure, te la ricordi la porta a vetri del corridoio, quella che dava da una parte all’altra della casa: il salotto e l’ingresso da una parte, la cucina e le stanze dall’altra. Beh. Eravate in cucina, una delle cene piene di dolore che abbiamo vissuto tutti e tre. Io mi sono alzato, e coscientemente, con la mano destra, ho tirato un pugno a quella porta a vetri. Come nei film. Se guardo bene, ho ancora una cicatrice sul dorso della mano. I vetri fecero tanto rumore, e cambiare la porta certamente fu costoso. Mi dispiace di avervi fatto spendere, io non avrei voluto. Avrei voluto solamente spaccare tutto. Come, a volte, vorrei ancora. Come la volta che per rabbia ho frenato così forte con lo scooter che sono andato giù, e poi ho scoperto di essermi fratturato l’alluce. Era il primo maggio 2015, tu eri morta da un mese e sette giorni. Dovevo andare a registrare la trasmissione sul cinema, quella che non sei mai riuscita a vedere.

Stetti sulla seggiolina della sede Rai per due ore, con il piede che stava gonfiando, finii la trasmissione e poi col cellulare chiamai un’ambulanza, se per favore venivano a prendermi. Se tu fossi stata viva, ovviamente non ti avrei detto niente. Non ti ho mai fatto sapere niente dei miei dolori, fisici o d’amore. Niente. Non una parola. Stoico. O forse, più probabilmente, imbecille.

Immagine tratta dal web

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