Dal Getsemani a Mirandola e altre storie

DI GIOVANNI BOGANI

E dunque, alle due di pomeriggio ero a saltare, da solo, in quel giardino miserabile e deserto, nell’orto del Getsemani, in quel giorno di luglio.

E poi alle tre del pomeriggio cominciò tutta un’altra storia. La storia più grande della mia vita.

Presi il treno. E me me ne andai in un posto che si chiama Mirandola, in mezzo alla campagna più campagna, fra Bologna e l’universo piatto dei cascinali, dell’orizzonte grigio anche a Ferragosto.

C’era una ragazza, lì. Aveva vinto il concorso dell’Europa insieme a me, eravamo stati insieme a Maastricht, forse ci eravamo scambiati un bacio.

Andai lì, a Mirandola, e lei non era contenta di vedermi. Era imbarazzata, scappò presto alla lezione di nuoto. Il primo grande amore della mia vita finì così, senza neanche cominciare.

Finii da solo ad aspettare il treno del ritorno in un piccolo piazza letto di ghiaia, davanti alla stazione. A tirare sassolini ad uno di quei pali con le strisce bianche e rosse. Pensando che quando tiri il sassolino devi fare centro. E quando vai a trovare una ragazza devi essere sicuro che le faccia piacere.

Ma non era ancora finita, quella giornata che avrebbe cambiato la mia vita. Anzi, la cosa più importante, più imprevedibile, più meravigliosa doveva ancora accadere, mamma. E forse, ripensandoci oggi, non ne accadono tante nella vita, di cose così. Chissà se a te è accaduto.

Il treno da Mirandola si fermava a Bologna. A Bologna c’era un’ora, prima dell’ultimo treno, l’espresso per Firenze. Vicino alla stazione c’era un parco, e c’è ancora. Si chiama la Montagnola: chiunque è stato a Bologna lo sa. Mi sembra di ricordare ancora il colore violetto del cielo, di quella sera che non era ancora notte.

Mi sembra ancora di ricordare il suono di chitarra che sentii arrivare da dietro una siepe. Mi sembra ancora di vedermi, mentre ascolto il ragazzo che suona, con altri ragazzi intorno. Mi sembra ancora di vedere il ragazzo che mi lascia la chitarra, mi invita a suonare qualcosa. Mi sembra ancora di vedere te, che stai salendo dall’ingresso con una busta di plastica in mano, forse qualcosa da mangiare per gli altri. E io vedo solo i tuoi occhi, i tuoi occhi azzurri.

Ci saranno stati altri milioni di occhi azzurri belli come i tuoi, al mondo. Ma a me sembrava proprio di no. Mi sembrava che ci fossero soltanto i tuoi. Non lo so dire, quel colore. Occhi di cristallo e di cielo, in una sera d’estate che profumava di gelsomino. Ci si innamora solo poche volte nella vita. Adesso lo so.

Giardini Margherita

So anche che dopo aver suonato troppe canzoni persi il treno; so anche che rimasi con quei ragazzi a passeggiare per le vie di Bologna di sera. SO che, quando venne notte, una notte calda d’estate, avevo conosciuto quella ragazza con gli occhi blu cristallo, con gli occhi di ametista, con gli occhi di lavanda e menta, con gli occhi liquidi, trasparenti e pieni di vibrazioni come le meduse, appena sotto la superficie del mare. So che parlammo di letteratura: lei che veniva dal Piemonte parlava di Fenoglio e di Pavese, ma anche dei francesi che visti da lì erano più vicini: Camus, Céline, Proust. E io balbettai qualcosa di Ungaretti e di Montale, forse le parlai di Helen Keller, o di William Saroyan.

Avevamo diciotto anni: lei aveva davvero Pavese e Fenoglio nelle vene, io ero molto più povero di libri, di pagine da donarti. Mi emozionai quando passammo da via Petroni, perché la cantava Francesco Guccini. “E in via Petroni si svegliano, preparano libri e caffè”, e io mi immaginavo quella strada, all’alba, che profumava di caffè e di libri. Forse mi immaginavo con te, una mattina presto, cappuccino e Céline fra le tue mani. “E io danzo, con Snoopy e con Linus”, cantava Guccini. Io dentro me danzavo, proprio come Snoopy quando tira il naso su, verso il cielo.

Venne mezzanotte, poi l’una. I suoi amici conoscevano un passaggio, un’apertura nella recinzione dei Giardini Margherita, un grande parco in mezzo alla città. Da quel buco entrammo tutti, dentro il parco spettrale, illuminato come in “Melancholia” di Lars von Trier, che all’epoca aveva ancora vent’anni.

Trovammo un prato dove stenderci. Tutti avevano i sacchi a pelo. Tutti tranne me. Mi dicesti “se vuoi, posso darti il mio”. Entrasti nel sacco a pelo della tua gemella. Io dormii nel tuo. O meglio, guardai le stelle e pensai a com’è strana, la vita. Mentirei se ti dicessi che si sentiva il tuo odore, in quel sacco a pelo. Quel sacco a pelo sapeva solo di pulito, e di futuro.

Al mattino prestissimo ci alzammo e andammo tutti a lavarci a una fontana. Eri con la tua gemella: stessi occhi color del sublime. Stessi capelli lunghissimi, neri. Stessa pelle bianchissima, stesse gambe lunghe nei jeans. Stessa delicatezza, nel diteggiare note di pianoforte nell’aria.

Mi lasciasti un bigliettino, un foglio a quadretti su cui avevi scritto, con una grafia precisissima, “A te che mi hai ascoltato cercando di capire uno che parla al buio e non sa cosa dire”. Era la frase di una canzone di Roberto Vecchioni, che ancora non avevo mai sentito. L’ho tenuto per anni, quel fogliettino a quadretti, con quelle poche parole, quella grafia minuta e precisa.

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