Desiderio di cinema

DI MARINA AGOSTINACCHIO

 

Pare proprio che la scrittura, in qualsiasi forma declinata, stia vivendo una stagione d’oro. Un’ intensificazione di commenti, scritti narrativi e poetici, deve la propria fortuna al bisogno di sentirsi parte di una comunità, oggi più che mai. Se da un lato la possibilità di guardarci negli occhi in modo disteso, e per giunta liberi da annaspamenti cui è costretto il volto dietro la mascherina, ci è stata preclusa, dall’altra pare proprio che la “rete” del web ci abbia salvato. Lì scriviamo, produciamo pensiero costruttivo o no, a seconda delle persone e delle situazioni, attraverso le parole.

In un certo senso, anche in tempi meno recenti, agli albori dei messaggini su telefonini, miracolo della tecnologia, dicevamo che, in qualche modo, almeno i ragazzi scrivevano in barba all’era del telefono fisso che già negli anni in cui trionfava nelle case, aveva accorciato le distanze, prodigando la meraviglia delle “parole sonore”, forti, per esprimere con immediatezza le emozioni e i sentimenti.
Ma torniamo alle modalità di comunicazione in rete.

Al suo interno sempre più diffusa circola la convinzione secondo la quale offrire parole senza il supporto di immagini fisse o in movimento depotenzierebbe il messaggio di cui le parole stesse dovrebbero essere portatrici. Inoltre, nei social, pare sia stata ingaggiata una tenzone tra coloro che credono nel valore assoluto della parola e chi crede, invece, che l’immagine abbia una forza evocativa di supporto a questa che non ha uguali. A volte, anch’io mi sono trovata a scontrarmi, con chi crede in una comunicazione a distanza fatta di “visivo” .

La verità sta nel mezzo. Penso che ogni codice comunicativo abbia funzione e fascino peculiari. Qui dobbiamo aprire una parentesi sul cinema. In un articolo di un giornale online, viene ricordato che Edgar Morin, filosofo francese, nato nel 1921, rifletteva su come il cinema produca un colloquio sotteso tra la dimensione illusoria, creata dalla costruzione delle immagini, e il “pensiero che si interroga”. Questa riflessione di Morin era in antitesi con la concezione secondo cui la trasmissione della cultura spettava esclusivamente al libro.

Traslando e rielaborando il concetto di Morin, credo che il segno distintivo del Cinema, consista nel rimando a un inconscio in cui pulsa tutta una materia allusiva.
Queto magma sotterraneo è dotato di un carattere di universalità che nasce dai singoli individui consapevoli della collettività di cui fanno parte.
Morin parla pertanto di “archetipi, miti, topoi, simboli, icone, paradigmi”. A me piace parlare di tracce lasciate in noi quali testimonianze di un patrimonio umano; esse vivono in un continuo “scambio con forme estetiche, narrative e drammatiche, antiche e moderne” (Morin). In un certo senso, penso che le tracce abbiano bisogno di emergere dotate di “corpo” di apparenza, di aspetto esteriore; abbiano necessità di esprimerci attraverso la presenza, la bellezza, la grazia, la bruttezza, insomma necessità di tutto ciò che è vita sensibile.

Nel pensiero espresso da Morin, vi è un punto in cui risiede uno specifico carattere del rapporto immagine – spettatore. Il prodigio compiuto dal cinema, infatti, sarebbe quello di fare vivere la visione della “proiezione” in una dimensione “estetico ludica”. Lo spettatore al cinema è letteralmente rapito dal gioco della realizzazione delle immagini che ci appaiono tra contrasti di luce e ombra, in cui si calano le vicende dei personaggi, le loro storie. Per esse compiamo processi di identificazione e proiezione del nostro vissuto. Lì, seduti sule poltroncine della sala cinematografica, partecipiamo individualmente alle storie riflesse dallo schermo, pur consapevoli della condizione di uno stare collettivo nello spazio che ci accoglie.

Lì tessiamo la vita dei personaggi e le nostre vite in un paniere comune; lo schermo diviene la nostra finestra aperta su un organismo vivente: la realtà.
Io, spettatore, so che esiste tra me e lo schermo un flusso comunicativo che parla dei significati che attribuisco alle immagini che scorrono sotto ai miei occhi e i significati sulle stesse attribuite dagli altri.
C’è un punto del pensiero di Morin che fa scattare interrogativi fecondi di riflessione, intorno alla rete, ai social, gestibili con gli smartphone. In sostanza egli sostiene che noi crediamo di essere padroni del dispositivo che azioniamo per il semplice fatto che per esso esaudiamo ogni nostra volontà visiva, realizzata attraverso lo schermo del cellulare o del pc.

In questa realtà fittizia siamo “spettatori passivi”; al contrario, al cinema, quel gioco di immagini proiettate all’interno di una sala ci mette nella condizione di potenziare la nostra capacità immaginativa che si carica di interazione costante tra “montaggio, effetti speciali, tecnica filmica” e narrazione di un racconto, metafora, sogno.
Del piacere di trovarmi in una sala cinematografica, ho ricordi riferibili già agli anni della mia infanzia. La mamma portava mia sorella e me al cinema della parrocchia. Lì vivevo un doppio stato di divertimento. Il film e l’intervallo tra i due tempi.
Era il premio atteso del sabato o della domenica pomeriggio. Durante la proiezione già mi affascinavano i “promo” di altri spettacoli in programmazione o le pubblicità. Lì mi fingevo la protagonista in virtù di scene create, “allungate o tirate a fisarmonica” come amavo definirle nel passaggio tra una e l’altra. E poi c’era l’audio che si propagava per tutta la sala e mi faceva sembrare di essere dentro lo schermo.
Immaginavo una mano capace di usare con maestria la cinepresa e il sonoro per il godimento dello spettatore.

All’intervallo tra due tempi c’era l’altro divertimento: “Angelino campanaro” passava per le file dei “monellacci” – come li chiamava lui – a distribuire “Ave Marie” a suon di scapaccioni perché l’intervallo era il momento dei fischi e dei lanci di stoppini con le fiondine costruite da loro stessi- “Quei monellacci”.
Mia madre, ridendo a crepapelle, invitava noi figlie ad abbassare le teste per non essere oggetto del bersaglio.
Poi ci fu la visione della Bibbia. Mio padre andò dal parroco a chiedere se potesse portarci a vedere il film che davano sempre al cinema parrocchiale.

Con noi c’era anche la nonna paterna, sconvolta perché, come diceva lei, anche la Chiesa era scesa a patti con i tempi a causa della scena di un nudo.
Ho memoria degli anni giovanili nutriti di cineforum, anche a scuola, dopo un corso di formazione e anche grazie ad essa colgo ora quel legame espresso da Morin sul rapporto estetico-ludico, prodotto dal cinema.
L’insegnante di Filosofia ci aveva proposto il libro di Jean Marie Peters, editrice Elle Di Ci, ”Leggere l’immagine- fotografia, film, televisione. Anche attraverso questo manuale, mi sono nutrita di cinema; preparata ad avere uno sguardo vigile su immagini, inquadrature, scene, sequenze, piani, campi, movimenti di macchina e poi a capire cosa fosse la sceneggiatura e a sapere cogliere il messaggio di un film.

Ingmar Bergman, Federico Fellini, Robert Bresson, Luis Buñuel, François Truffaut, sono nomi che sfilano nella mente a ricordare alcuni dei loro film come momenti di gioia smisurata, piacere, bellezza.
Rammento anche il cineforum con le amiche dei miei 50 anni. Sempre ho continuato a sentire la suggestione di quanto vedevo. E ogni volta provavo lo stupore di quando ero bambina, stupore che rimaneva intatto di fronte alla magia che esercitava in me quella forma particolare di spettacolo.
Ci sono stati gli anni dell’insegnamento. Ricordo la preparazione alla visione del film Schindler’s List di Steven Spielberg, rivedo le scene studiate a tavolino su un lavoro di “lettura” di Padre Sorge.

Di un corso con gli alunni sull’onirico e il giallo, ecco di scena apparire Chaplin e Hitchcock. Potevo raccontarli guidata anche dalla collezione in DVD dei loro film. Di Chaplin, poi, avevo anche la storia di come montava la pellicola; un lavoro artigianale che seguiva personalmente unendo, accorciando i fotogrammi per “dire” la propria intenzione comunicativa, accompagnarla per rendere chiaro il messaggio che voleva emergesse dal film.

Hitchcock offriva la possibilità di un lavoro sullo studio del “giallo”; era, Hitchcock, il maestro che conduceva lo studente a costruirsi una storia di genere, oltre la lettura di brani offerti dall’antologia.
Il film che ho visto al cinema del mio quartiere prima che chiudesse l’epoca dei vecchi gestori è stato “La caduta” Andai sola a vederlo una domenica pomeriggio. Anche quel film fu occasione di riflessione, di attenzione alla scelta dell’immagine, agli effetti visivi.
Nel gennaio del 2020 il film, l’ultimo visto, prima della chiusura delle sale, a causa del covid, è stato Tolo Tolo di Checco Zalone. Forse il regalo inconsapevole di una condivisione con tutta la mia famiglia, e con un pubblico più vasto, di uno dei film più interessanti che abbia visto.

Prima di avere cognizione della pandemia che già si stava abbattendo sul pianeta.
Questo pezzo vuole essere un augurio per una  piena ripresa di una delle forme comunicative più interessanti e formative della persona.
Arrivederci, Cinema!
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