Di eskimo e preghiere

DI GIOVANNI BOGANI

Eskimo

Non sapevi nulla, mamma, dei miei sogni, dei miei incontri. Di quale direzione prendeva la mia vita. O almeno, quale direzione prendevano i treni che prendevo.

Non ti chiedevo soldi: ogni estate andavo a lavorare in quel bar, a Viareggio, tu disperata perché tuo figlio faceva “il cameriere”, come se fossi andato all’inferno.

Ma a me piaceva, mamma, inventarmi modi ingegnosi per portare sul vassoio il bicchiere della vodka, che era stretto e lungo, mi piaceva parlare con quei clienti abituali che sembravano la ciurma di un vascello di pirati, tutti torvi, ingobbiti, aggrappati al bancone e al loro Stravecchio Branca, o al loro Courvoisier, come alla barra di un timone immaginario.

Non ti chiedevo soldi, ne avevo guadagnati abbastanza per qualche libro usato, comprato in quella libreria di via Ventisette Aprile, minuscola, in cui entravi e potevi scomparire, come un topo,

fra mucchi di libri, vecchi Bur grigiastri che al tatto erano sgradevolissimi,

ma per quattrocento lire

trovavi Eschilo, Sofocle, Tucidide, o Platone, e io avevo rispetto per quei greci lì, che in un tempo indefinibilmente lontano, in un tempo incommensurabilmente lontano, in cui non c’erano la televisione, la stampa, le 1500 Fiat, e nemmeno le Lambrette, non c’erano i treni, gli aerei, la teleselezione, i frigoriferi, le penne a sfera, la penicillina, o le radiografie,

in quel tempo lì impensabilmente lontano avevano pensato e scritto riflessioni così possenti, così definitive su ciò che siamo, sul senso possibile del nostro stare al mondo, su che cosa può essere davvero il mondo.

E così mi portavo a casa dei libri, mi sembrava di poter diventare ricco, ricchissimo di superpoteri mentali, mi sembrava di catturare calorie per una corsa che forse, invece, non è iniziata mai.

Non ti chiedevo soldi. Per nessuna cosa al mondo.

Non per i biglietti dei treni, non per i vestiti – tenevo quelli che avevo già: prima che un cappotto si laceri, prima che un paio di scarpe finisca davvero ne passa, di tempo. Mi ero costruito un sacco con un panno che avevo cucito da due lati: sul bordo superiore avevo sistemato un cordone da tappezzieri. Era il mio sacco da viaggiatore, verde militare. Chissà che fine ha fatto.

Chissà che fine ha fatto quel Montgomery comprato al mercato, fatto con quadri di diverso colore, giallo, verde, verde scuro, marrone: sembrava “Suono antico” di Klee, un quadro che avevo visto in un libro, e che mi era piaciuto tanto, da piccolo. Il mio Eskimo gucciniano, e non lo sapevo ancora, non l’avevo ancora sentita quella canzone. Poi chissà come le cose rotolano via, quando. Non te ne accorgi neanche. Come i giorni, come la vita.

Le preghiere

Non ti sei stupita di niente. Non mi hai sollecitato mai. Non mi hai chiesto, da bambino, se avevo detto le preghiere, prima di andare a dormire. La nonna sì, me lo chiedeva, e per me non era un problema dirle. Ma tu non ci credevi, alle preghiere, probabilmente.

Le avevi dette quando cadevano le bombe sopra il rifugio, nei bombardamenti dell’11 marzo 1944, sul torrente Mugnone e sul quartiere di Rifredi, dove abitavi.

O in quello del primo maggio 1944, con le bombe che cadevano su Porta al Prato, o quello del giorno dopo, ancora su Rifredi e su San Jacopino. Uno di quei bombardamenti lo fecero con il fosforo, bruciavano le case, bruciavano i treni, bruciavano gli umani.

Non mi hai chiesto se avevo detto le preghiere. Non mi chiedevi neanche se mi ero lavato le orecchie, non mi chiedevi se avevo fatto il bravo bambino. Non mi raccontavi le favole.

Credo tu non mi abbia mai raccontato una favola. Chissà, forse non le sapevi neppure tu.

E quando avevo quattro o cinque anni, le compravamo, le favole, alla Upim di via Panzani. I dischi 45 giri con le favole. E poi le mettevo, da solo, nel giradischi di plastica arancio, una, due, dieci volte. Mi piaceva “La Bella e la Bestia”. E forse, alla fine, ho sempre pensato che fossero così, i rapporti fra gli uomini e le donne.

Ero bambino, e sognavo di liberare fanciulle prigioniere di organizzazioni criminali. La ragazza era sola nella stanza, seduta e legata, con i gangster attorno a lei. E arrivavo io, mi sbarazzavo dei cattivi e la portavo via da lì. Poi ci sposavamo.

Quando avevo cinque anni e venivi da me, mamma, prima che dormissi, ti preoccupavi solo che le coperte fossero ben rincalzate. Tiravi lenzuola e coperte, le chiudevi sotto il materasso. Io mi sentivo protetto. E mi è rimasta, sai?, quell’abitudine. Dormo da solo e rincalzo le coperte meglio che posso: non riesco, neanche d’estate, a non sentire un lieve peso, quello delle lenzuola e di una coperta leggera.

Si spegneva la luce, e io cominciavo a pensare. Mi chiedevo che faccia avesse Cristo, che faccia avesse Dio. Se Cristo era più simpatico di Dio, perché era più giovane.

Mi chiedevo come sia possibile essere immortali: il pensiero era per me spaventoso, perché l’infinito è qualcosa che non si può pensare senza terrore. Non poter finire, non poter sfuggire ad un mondo, per quanto bello, per quanto meraviglioso sia. Mai mai mai mai mai… più lontano di quanto ogni mente possa immaginare, e quando sei arrivato in fondo alle galassie del tempo, ce ne sono ancora, infinite altre, e ancora altre galassie di tempo, o di spazio, e per poco il cor non si spaura.

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