DI MARIO MESSINA
Dolen Perkins-Valdez,
Prendi la mia mano.
Nord
Vi sono incipit che portano impresso il DNA di un intero libro: <<Non passa anno senza che io non pensi a loro. India. Erica. I loro nomi sono ricamati in ogni camice bianco che abbia mai indossato. Racconto questa storia per ricavare i loro nomi anche nei vostri vestiti>> (pag. 13).
La voce narrante è quella di Civil Townsend, infermiera presso il consultorio di Montgomery, Alabama.
Testimone, suo malgrado, di una, neanche troppo velata, politica di sterilizzazione di donne di colore ed in condizioni di povertà.
Medioevo? No, Annus Domini 1973.
L’esigenza della confessione diviene, così, intima, terapeutica: <<Non sto cercando di cambiare il passato. Lo sto raccontando perché i fantasmi trovino finalmente pace>> (ibidem).
La vicenda è romanzata ma gli accadimenti trovano tutti fondamento nella realtà.
Il rischio in cui il lettore potrebbe incorrere, in questi casi, è quello di trovarsi di fronte ad una cronachistica e arida storia di soprusi statuali.
Per merito della nostra scrittrice questo non avviene.
Dolen Perkins-Valdez riesce, infatti, a dotare di grande intensità emotiva l’intera narrazione con particolare capacità ed abilità.
Non soltanto consentendo al lettore di conoscere a fondo i sentimenti e le emozioni che si muovono nel cuore dei protagonisti o ben tratteggiando intense relazioni interpersonali ma riuscendo, soprattutto, a rendere come filiale un legame che tra Civil, India ed Erica di sangue non è.
In un acceso scambio di vedute con la nonna delle ragazze Civil dichiara: <<Come si può andare avanti lasciandosi alle spalle una famiglia? Non capiva che la famiglia è molto più del sangue? È condivisione, passato comune, sofferenza.
Quelle ragazze adesso erano di famiglia tanto per me quanto per lei>> (Pag. 322).
Ad una valutazione squisitamente estetica bisogna, però, affiancare una disamina più attenta della struttura del testo nonché dei risvolti ideologici che ne derivano.
Per quanto concerne la prima, questa sembra richiamare fedelmente la classica impostazione di certa cinematografia americana di denuncia.
Gli ingredienti sono ricorrenti e ben dosati.
In primo luogo l’ambientazione.
<<l’Alabama. Il cuore della bible belt americana. Lo Stato che aveva ospitato quasi mezzo milione di schiavi>> (pag.29).
Un luogo che si presta, pertanto, a forti differenze di classe e razziali con gruppi etnici socialmente deprivati: <<Ricostruii nella mia testa i dettagli della loro storia. Mace Williams, il padre, trentatré anni, mungeva le mucche, badava alla terra, e faceva tutto quello che gli diceva l’uomo bianco in cambio di questa baracca e pochi spiccioli. Constance Williams, la madre, deceduta. Patricia Williams, la nonna, sessantadue anni>> (pag.32).
Una povertà endemica, estrema: <<La prima cosa che mi colpì fu l’odore. Urina. Sudore. Cane. Il tutto mischiato al tanfo salato di qualcosa che stava sobbollendo in una pentola. Un’unica stanza fatta di assi marcite. Un’unica finestra schermata da un pezzo di lenzuolo. […] Quattro persone vivevano in quell’unica stanza, in quello spazio insufficiente>> (pag. 32).
Perché lo status quo venga messo, però, in discussione è necessario che all’interno dello stesso gruppo vi siano soggetti che, come si sarebbe detto un tempo, abbiano una “coscienza avanzata”.
Presentino, cioè, un livello culturale ed una situazione economica tali da consentire loro di assumere il ruolo di “avanguardia” in vista di potenziali futuri cambiamenti.
Civil Townsend, appunto.
<<Vivevamo a Centennial Hill, a due passi dalla Alabama State University, e per tutta la vita ero stata circondata da gente istruita. [..] A cena discutevamo di Frantz Fanon e James Baldwin, dibattevamo di W.E.B. Du Bois e Booker T. Washington, parlavamo con ammirazione di Angela Davis>> (Pag. 17).
In uno stato a forte connotazione segregazionista e schiavista questo, però, è un elemento necessario ma non sufficiente.
È importante che intervenga un nuovo attore.
Il giovane avvocato bianco, progressista e spregiudicato che deve ancora costruire la propria carriera non avendo timore di pregiudicarla.
<<Lou Feldman era una risorsa>> (pag.191).
La lista degli ingredienti è quasi completa.
La battaglia giudiziaria costituisce, così, uno dei passaggi ineludibili.
Con un esito che, di fatto, non scontenti nessuno.
Il sistema in primis.
Una sentenza che uno tsunami, di certo, non può essere.
Una scossa di assestamento, piuttosto.
Perché puoi pure accertare in sede giudiziaria che migliaia di donne, talvolta persino minorenni, nere e povere furono sterlizzate ma non puoi consentire loro di divenire cittadine di serie A.
Sarebbe un infrangere le barriere di classe e razziali cui sono destinate.
Non è, pertanto, inusuale che a quaranta anni di distanza dalla sentenza Civil così affermi: <<La facciata della casa è scialba e insignificante, e allora capisco, con una fitta di dolore improvviso, che sono ancora povere>> (Pag.313).
Nessun risarcimento ha avuto luogo.
Il sistema sarà pur stato punito ma il tutto è comunque avvenuto all’interno di una catena di comando istituzionale, come avrebbe sostenuto Eichmann a Norimberga.
Da un punto di vista più prettamente ideologico, infine, spiace, al sottoscritto, aver rinvenuto due periodi che sembrano portar con sé i germi di una ideologia americana che rasenta il neocorporativismo.
La battaglia giudiziaria si è appena conclusa e a pagina 297 Civil afferma: <<Proprio lì, a Montgomery, Alabama, la giustizia aveva prevalso. Ero sconcertata che tanto odio potesse convivere con altrettanta bontà. Il mondo era un enigma. Il mio Paese era un enigma. Eppure, era il mio. E ne amavo ogni centimetro quadrato>>.
Oppure, a pagina 336: << Mentre vado verso nord lungo la Interstate 65, il cielo sull’Alabama è limpido e privo di nuvole, luminoso come uno dei dipinti di mamma. Sotto quell’ azzurro mi sento protetta, tutta quanta, ogni singola parte di me. È meravigliosa, questa terra, questo paese traboccante della bellezza di Dio>>.
Lo stesso paese che ha appena fatto sterilizzare due bambine di undici e tredici anni soltanto perché povere e nere.
Mia cara Dolen, hai scritto un libro così bello, di questi passaggi non si poteva, magari, fare a meno?
Immagine tratta dal web
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