Douglas Stuart, Storia di Shuggie Bain

DI MARIO MESSINA

Narrare una vicenda umana non è mai qualcosa di neutro.
Esprime comunque e sempre un punto di vista.
Una visione ed una interpretazione del mondo.
Anzi, può divenire, addirittura, la rappresentazione di un’ epoca.

È in questa ottica che può essere letto, a mio modesto avviso, il libro di Douglas Stuart.
Un libro scritto e pubblicato oggi ma essenzialmente un libro degli anni Ottanta. Sugli anni Ottanta.

Il decennio che sancì il canto del cigno del Novecento introducendo nuovi paradigmi interpretativi in tutti i campi del sapere.
La vicenda è ambientata in Scozia.
Agnes decide di abbandonare una vita familiare troppo tranquilla per seguire uno scavezzacollo trascinando nel baratro i tre figli.

Da qui inizia il tracollo. Alcol, emarginazione, umiliazione, morte.
Tutto per scelta individuale.
Coerente con il mantra della Thatcher, icona assoluta di questo decennio funesto, per cui “la società non esiste. Esistono solo gli individui”.

La birra è un flusso ininterrotto. Quanto il numero di pagine. E non conta dove Agnes decida di abitare. È artefice incontrastata del proprio destino.
Non subisce influenze esterne.
Le sovrastrutture e la sociologia potete benissimo metterle in soffitta.

Pur trascorrendo, infatti, la maggior parte della sua esistenza alcolica in un periferico ghetto operaio la protagonista non ha nulla a che spartire con chi la circonda.
Lo scrittore la isola non instaurando alcun collegamento.

Non si dilunga sulle ragioni che hanno portato all’ espulsione dal mondo del lavoro di migliaia di minatori che la circondano. Sulle loro esistenze distrutte.
Anni Ottanta, come dicevo, non a caso.
Fine della politicizzazione, del collettivo, dei drammi condivisi. Benvenuto edonismo reaganiano.

Sale bingo, TV private, pub a tema cowboys.
La felicità sociale non la si ricerca. Ci si accontenta di un po di frivolo individuale e quotidiano.
La rivolta cede il passo a Travolta.
Con un risultato assolutamente cinico sul sottoscritto.

L’ assenza di empatia e solidarietà con la protagonista.
Un distacco emotivo che è impossibile registrare tutte le volte che un regista come Ken Loach plasma vicende e ambientazioni assai simili.
E il film “sweet sixteen” ne è la prova più lampante.

Immagine tratta dal web

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