“Ennio” di Giuseppe Tornatore, travolgente docufilm dedicato ad Ennio Morricone

DI MARINA AGOSTINACCHIO

Ennio: emozioni, ricordi, vita che si racconta a cui si uniscono in un sinfonico andamento orchestrale voci artistiche di diversa linea espressiva.

Vorrei provare a raccontare quelli che per me sono stati i motivi di fascino mentale ed emotivo del docufilm, e dire cosa mi spinge a scrivere qualche pagina su un uomo e sull’arte di tutta una vita.

Davvero ho pensato, durante e dopo il docufilm visto, che esso esprimesse una diversità, l’espressione di una nota più alta, la scintilla di una intelligenza che ci sovrasta e che vuole essere messaggero di bellezza.

Mi arrischio, tra gli interventi senz’altro più competenti e dotti della mia, a scrivere qualcosa su “Ennio di Giuseppe Tornatore, “travolgente”, “meraviglioso” e sublime.

Sono stata a vedere Ennio. La vita di Ennio, la musica di Ennio.
Non è un lapsus dire “a vedere la musica” perché quella musica, tessuta per il cinema, è musica visiva, resa leggibile attraverso le parole del protagonista, Ennio Morricone, appunto.

Ed é musica che si può ascoltare socchiudendo gli occhi per potere fare scaturire da ogni suono immagini.
Guardando questo affresco di vita, avvertiamo di essere tasselli inconsapevoli di un quadro che dipana il suo mistero di genesi musicale “filmico”, attraverso i ragionamenti del suo creatore.

Così tutto gira vorticosamente, al di là dello spazio e del tempo, suoni, sorrisi, commozione, timbri onomatopeici, versi laringei, contratture muscolari e a volte quasi ironici, arguti e spiritosi del volto di Morricone. Ecco ancora le lallazioni e le onomatopee vocali, i rifacimenti sonori della musica della vita in cui siamo immersi prendere corpo e divenire dal loro esordio musica consonantica ai nuclei narrativi di cui è costituito un film.

L’intelaiatura di musica, immagini e parole riesce a esercitare un effetto di reazione a catena sullo spettatore, travolto da una specie di vertigine: colonne sonore che hanno accompagnato la nostra vita, scene di film in cui ci siamo tuffati secondo un processo di identificazione e proiezione, canzoni e cantanti che hanno scandito la nostra crescita.

E… magia del cinema e degli artefici di quest’opera di cesellatura su Morricone, in questo viaggio nel tempo abbiamo la percezione di non essere soli, avvertiamo un senso di gioia intima che cade a cascata su tutti coloro che condividono con noi lo schermo della sala.
La vita dell’immenso compositore trascorre sulla pellicola tutta, dall’inizio alla fine.

Ennio Morricone nel suo racconto nitido e vero, emozionante ed emozionato, ci apre la porta del suo mondo.
Nel corso della lunga intervista, si susseguono testimonianze di musicisti, compositori, artisti e registi, che aggiungono ricordi, aneddoti e considerazioni.

Intervengono, tra gli altri, Bruce Springsteen, Pat Metheny, Bernardo Bertolucci, Quentin Tarantino, Dario Argento, Liliana Cavani, Nicola Piovani, Carlo Verdone, Gianni Morandi, Roland Joffé, Silvano Agosti, Caterina Caselli, Gino Paoli, Alessandro De Rosa.

A queste voci, si aggiungono le scene tratte dai tanti film, a cui il Maestro ha collaborato, e alcuni preziosi documenti tratti dall’Archivio storico dell’Istituto Luce.
Lo conosciamo compositore, scrittore di colonne sonore, direttore d’orchestra, autore di canzoni e arrangiatore (Mina, Paul Anka, Gino Paoli, Edoardo Vianello, Gianni Morandi, Jimmy Fontana solo per fare un esempio tra i tanti che hanno avuto la fortuna di cantare testi arrangiati da lui); e poi Edoardo Vianello nell’ incipit di “Abbronzatissima” cantato in duetto con lo stesso Morricone).

Il suo maestro, quello del conservatorio, per cui avverte rispetto, devozione, (“Mi commuovo solo a sentire il suo nome” dirà Morricone del suo maestro), profondo riconoscimento per le sue eccelse qualità musicali è Goffredo Petrassi; egli che solo dopo molti anni riconoscerà a Morricone la grandezza del compositore di musica da film.
La musica per il cinema negli anni giovanile di Ennio è considerata figlio di un dio minore.

Ennio dichiarerà di essere stato percorso per tutta la sua esistenza da questo iato: l’ossessività degli strumenti a fiato di molte delle sue composizioni, il ricorso al rumore di fronte al quale è colto da gioioso intimo stupore, rumore che trova la sua legittimità all’interno di un sistema suono.

Vorrei a questo punto soffermarmi su una delle recensioni lette sul regista di “Ennio” “Tornatore ha concepito la propria linea narrativa come una partitura musicale.

Il montaggio rende questa cavalcata di oltre due ore e mezzo tra film e pentagrammi uno svelamento seducente … che non si vorrebbe finisse mai, perché, tra aneddotica e archivio cinematografico, la musica e le sue leggi restano a fuoco”.
Ed effettivamente questa cavalcata già nel suo avvio ci appare preannunciata da un metronomo che trova nei ritmici movimenti del corpo in esercizio di Morricone il suo andamento narrativo, consonante alla presentazione e alla ricostruzione della sua vita.

I movimenti di direzione d’orchestra e lo stretching domestico, la scrittura sulla partitura musicale in cui si distendono le scene dei film (dalla scoperta della potenzialità creativa, l’ideazione, alla escogitazione di possibilità strumentali e rumoristiche, ad esempio dei western di Sergio Leone), per una visione analitica e di insieme dell’opera presa in esame, tutto ci fa percepire la cura e la competenza, la capacità verticalizzante e vissuta con cui il nostro Ennio ha spaziato in ambiti molto diversi.

Leggo che “Ennio scoverà partiture, strumenti e suoni innovative: pizzicate di contrabbasso, balzi di ottava superiore, fusione di tromboni e voci maschili. Gli archi incidono nell’aria frasi di apertura vertiginose: è come se raffiche di note, agili e febbrili, facessero da battistrada alle canzonette. Come usare Klee e Kandinskij per disegnare la cartellonistica di una fiera”.

«Prima di Morricone i brani venivano accompagnati da un’orchestra: lui ha inventato l’arrangiamento moderno» (Gianni Morandi)…” Con la musica leggera aveva scoperto come spostare il “basso” verso l’“alto” , Mettere nell’arrangiamento qualcosa di superiore al brano». Così come nel cinema opererà in senso contrario, introdurrà “lo scricchiolare del legno, il fischio, la frusta, la campana, l’incudine, l’armonica al posto della voce, la voce del coyote, ma anche la voce umana, soprattutto quella femminile, che esce dalla cassa armonica del corpo umano («uno strumento unico»)”

Per i non addetti ai lavori, scopriamo nel docufilm che Morricone era diplomato in tromba.
Ennio confesserà che inizia controvoglia. “La tromba, l’arnese con il quale il padre sfama la famiglia, è uno strumento esigente, vuole persino che il corpo, con l’ispessimento del labbro, si adegui a lui. Vorrebbe fare qualcos’altro, forse il medico. Il padre decide diversamente e Ennio obbedisce.

Dopo un inizio da studente svogliato, attacca a suonare tarantelle, bourrè, gighe. Non la smetterà mai più”.
E poi dirà ancora : «Volevo lasciare la musica alla fine degli anni 70. Poi ho rimandato di un decennio. Alla fine del successivo ho detto che avrei smesso in quello dopo. Poi non l’ho detto più».

Studia il contrappunto come un ingegnere edile le tecniche di costruzione, da Monteverdi a Frescobaldi a Bach, ma allo stesso tempo suona nelle bande militari. Maria, la moglie, lo segue per strada. Il suo maestro, Goffredo Petrassi, tra i più grandi compositori italiani del secolo, passa dal neoclassicismo di Stravinskij alla musica dodecafonica, dalla musica sacra dei Salmi del maestro russo all’oceano misterioso e sconosciuto dell’atonalità”.

Negli anni Cinquanta il musicista inizia a lavorare come suonatore di tromba in varie jazz band. Le sue abilità concettuali e applicative, le sue eclettiche conoscenze (dalla classica alla atonale sperimentale) e capacità in ambito musicale, gli permettono e gli offrono possibilità di scelta di genere formale e stilistico su cui concentrarsi.

Percepiamo in questo affresco di vita un Ennio Morricone non solo studioso e buon suonatore di strumento, ma anche un uomo con caratteristiche personali e psicologiche ben precise e ciò anche attraverso la voce di altri artisti nazionali e mondiali.

Il lavoro cinematografico, tessuto da Giuseppe Tornatore, ha il merito di avere saputo attraversare in un “pieno crescente”, una coralità di voci espresse con suoni linguistici diversi, convergenti in un focus di riconoscimento “magnificante” del musicista e secondo una modalità di montaggio, (di Massimo Quaglia e Annalisa Squillaci), un’alternanza di campi, inquadrature costruite in un continuo trascorrere di volti, dove gli intervistati sono ripresi a distanza abbastanza ravvicinata su uno sfondo bianco ed emergono quali immagini significative in tutta la loro singolarità.

I passaggi da un artista a un altro si alternano a schegge di concerti, film. Le testimonianze sono tratte dagli archivi della BBC, della RAI e dell’istituto Luce.

E a proposito di testimonianza, nel docufilm, infatti, si alternano attori e registi italiani e internazionali con plurime testimonianze da parte di artisti di spessore, Clint Eastwood a Quentin Tarantino (colonna sonora di “Bastardi senza gloria” e Oscar nel 2016 per la colonna sonora originale di The Hateful Eight)), Joan Baez a Pat Metheny John Williams (“Guerre Stellari” e “Indiana Jones”) e Hanz Zimmer (“Pirati dei Caraibi”), Dario Argento (scrive le partitore di L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code, Quattro mosche di velluto grigio), Giuliano Montaldo (“Giordano Bruno” e “L’Agnese va a morire”, Elio Petri (“La classe operaia va in paradiso”, i fratelli Taviani (“Allosanfàn”, Bernardo Bertolucci (“Novecento”).

Rimango affascinata da come questo grande musicista abbia saputo contaminare epoche ed artisti appartenenti a tempi diversi e lanciarli come dardi in altrettanti spazi in un altro; lui stesso lo dichiara in una delle interviste “Monteverdi o Gesualdo trapiantati in Amazzonia, il flauto di pan, usato da Gheorghe Zamfir in Picnic ad Hanging Rock, di cui Morricone diventerà il Paganini, adottandolo per il tema, amatissimo, anche da tutti gli ascensori e i grandi magazzini del mondo, di C’era una volta in America”.

Leggo soprattutto un uomo schivo e sensibile nel suo dire la passione e lo stupore per la scoperta della potenzialità creativa, l’amore per la moglie Maria, le amarezze di cui è stato inondato.

Ti alzi malvolentieri dalla poltrona della sala che si accende al termine della visione del docufilm, mentre vorresti rimanere seduta al buio, seguendole le note di “Mission” e i primi piani dello sguardo spesso commosso di Ennio Morricone che si racconta sapendo che quel tremore di occhi non ci lascerà indifferenti.

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