Essere altrove

DI MARINA AGOSTINACCHIO

E’ del 2022 un libro di Marco Annicchiarico, dal titolo “I cura cari”, editore Einaudi.
Il titolo mi ha subito incuriosito. Ho pensato a un suono, prodotto dall’ allitterazione e precipitato in me quasi senza avvedermene; nel contempo alla consonanza del binomio dei sostantivi, un suono duro pur nella sua accezione semantica-lessicale.

Curare, prendersi cura di qualcuno, è in genere l’atteggiamento di una figlia, di una compagna, di una moglie, di un femminile che non scioglie mai davvero i legami con chi ama o chi suggerisce compassione, empatia, emozione.

Ma in questo libro si parla di una condivisione al maschile; un figlio, l’autore del libro che assiste progressivamente alla perdita di una dimensione spazio-temporale da parte della madre.

Chi si imbatte nella malattia dell’alzheimer perde anche le coordinate affettive, lentamente, irrimediabilmente.
Ho seguito casi di alzheimer attraverso il racconto di amici i cui genitori “non ci stavano più con la testa”, o attraverso conoscenti. Ricordo parecchi anni fa l’incontro a una festa di capodanno con una signora, che chiamerò Maria, cui chiesi dove fosse il marito. Rispose che era di turno in ospedale.

Lo sguardo mi sembrò perso; gli occhi ruotavano intorno alle cose, come se quelle cose, quelli oggetti potessero darle delle risposte che cercava con forza per dichiarare la sua presenza nel mondo. Mi dissi che forse, però, questa era una mia interpretazione dei movimenti degli occhi di Maria.

Dopo un po’ incontrai il marito medico nella stessa sala dove avevo salutato poco prima lei. Erano vicini. Ma lei non sembrava accorgersene.
Un amico che aveva accudito per anni la madre, si chiuse a riccio, dimagrii incredibilmente, sembrava fare scudo, con il suo ritiro dal mondo, alla demenza della madre che, di tanto in tanto, aveva tra l’altro atteggiamenti aggressivi, tipici della malattia in questione, con le persone che le facevano corona: marito, figlio, infermieri, badanti, medici…

Dalle narrazioni di queste persone ho provato a immaginare come debba essere l’accudimento di un malato di questo tipo e come debba essere doloroso sentirsi negati.
Ho anche riflettuto sul come si possa giungere a perdere una misura di sé, la propria essenza, la propria vita che impara a camminare su altri binari.

Un punto del libro di cui ho letto la presentazione fatta in un giornale, è stato quello dove si parla di forme di aiuto che permettano al malato di tenere radici ferme con le cose. Ecco, ad esempio, che l’autore della biografia, parla di cartelli sulle porte, a definire le stanze: bagno, camera della madre, cucina, sala.

Inoltre, per focalizzare l’attenzione negli spostamenti, ecco apparire disegni, in bianco e nero e stilizzati, di posate, piatto, bicchiere, sotto la scritta cucina. “Quel disegno rappresenta lo stato d’animo di chi ormai riesce a vedere una realtà priva di tutti i dettagli” dice lo scrittore. Le scritte appaiono anche sui cassetti della cucina: “posate, tovaglie, medicine, sacchetti; ancora più sotto, sugli sportelli della credenza: pentole, piatti, acqua, pane”.

Entrare nelle cose, mentre lentamente spariscono dal nostro orizzonte, fino a divenire trasparenti nell’assenza…
C’è chi scompare, facendosi sottile, diafano, isolandosi dal mondo, preda di uno struggente amore, come nel mito di Eco e Narciso, chi si dimentica di sé, piano piano, annullandosi in uno spazio vuoto. E forse non resta neppure più la voce a dire di essere o essere stati presenza sulla terra.

“Diamo nome alle cose affinché mia madre possa ritrovarle”, dice ancora lo scrittore nell’intervista.
Ed è proprio vero: nominare aiuta a memorizzare, come si può, oggetti fatti di materia e significante.
A volte anche il suono delle cose dette, nel loro nominarle, concorre a creare legami con forme poco alla volta sbiadite nel loro perdere contorni.

Colgo nel racconto che Marco Annicchiarico fa la precisa volontà di riaffidare la madre ala mondo, mentre dichiara che dando un nome alle cose, perché la madre possa ritrovarle, possa ritrovare la donna di un tempo.
Una ex collega, amica, mi narra di tanto in tanto le vicende della madre novantenne, affetta da demenza senile.

Ricordo il senso di smarrimento e di dolore che mi comunicò quando apparvero anni fa i primi sintomi di una metamorfosi della madre. Soffriva, questa amica, per la confusione dei pensieri, lo scambio delle persone o il non loro riconoscimento da parte della madre.

Eppure, ciò che resta tuttora con tenacia, nel modo di approcciarsi alla figlia e al figlio, è l’ironia, una caratteristica della personalità che pare non voglia lasciare campo libero alla malattia.

A volte, situazioni come quelle descritte chiedono un allontanamento, una separazione dalla vita scelta anni addietro, in nome di un’autonomia raggiunta. Rientrare in famiglia non deve essere facile e per di più in un contesto di cambiamento delle persone, una metamorfosi che spesso porta dolore e sofferenza in chi assiste alla perdita di sé della propria madre.

Sollecitare a ritrovarsi, attraverso la scrittura, i disegni, il suono della voce, cercare di riportare alla mente la dimensione del tempo sciolto e ora sconosciuto, mi è sembrato davvero un atto di coraggio, di sfida, di amore nei confronti della propria madre.

Immagine tratta dal web

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