Filippino Lippi, Deposizione dalla croce

DI ILARIA PULLE’DI SAN FLORIAN

Se Filippino Lippi, anziché nel Quattrocento, fosse vissuto negli anni Ottanta, la sua vita, occorre riconoscerlo, anche suo malgrado, avrebbe fornito una notevole quantità di materiale a pubblicazioni scandalistiche e gossip più o meno eleganti.

Indubbiamente avrebbe colpito la consueta qualifica di enfant prodige, universalmente riconosciuta e apprezzata, ma certo che la discendenza diretta da un frate e da una monaca avrebbe finito per sovrastare qualunque altra informazione biografica.

Filippino, infatti, era figlio del celebre pittore Filippo Lippi e di suor Lucrezia Buti, frutto di una relazione proibita tra l’artista, frate, incaricato di decorare alcune sale del convento in cui dimorava la religiosa, peraltro di una bellezza straordinaria, e quest’ultima, a propria volta presumibilmente non dotata di quella vocazione genuina, già all’epoca piuttosto rara, nella maggior parte dei casi forzata al fine di mantenere i patrimoni familiari nelle mani del primogenito.

Dai Promessi Sposi a Storia di una capinera, a La lettera scarlatta, letteratura e cinema ci hanno edotto riguardo a storie che potevano rivelarsi vere e proprie tragedie, mentre altre si limitavano ad aggirare le convenzioni dell’epoca attraverso comportamenti licenziosi più o meno nascosti.

In ogni caso, lo straordinario talento di Filippino, il quale già a dodici anni collabora con il padre nella realizzazione degli affreschi per il Duomo di Spoleto, e affianca tranquillamente Botticelli peraltro mostrando una maestria davvero notevole, gli permette di distinguersi ed elevarsi senza alcun indugio, lasciando in secondo piano eventuali pruriginose vicende personali.

La Deposizione dalla croce, del 1504, è una delle sue ultime opere – Filippino morirà appena tre anni più tardi – ed è lasciata incompiuta, tanto che a terminarla sarà il Perugino.
In linea con quella particolare dimensione visionaria che finisce per contraddistinguere, nel corso degli anni, i dipinti dell’artista, l’immagine appare, nell’insieme, molto teatrale, con sentimenti e gesti dei protagonisti espressi in modalità simil cinematografica.

La Madonna sofferente, la Maddalena addolorata, Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, quest’ultimo sempre citato a proposito del Graal, fisicamente impegnati nel calare il corpo esanime del Cristo, sono tutti elementi che, sommati ai dettagli tecnici delle scale e delle corde sinuosamente sciolte, movimentano un gruppo vivente di protagonisti inquadrati nel ruolo specifico di rappresentare una determinata scena.

L’effetto finale risulta in tal modo vagamente artefatto, per quanto la magnifica tecnica dei due esecutori sposti in parte l’attenzione dell’osservatore su linearità e perfezione del contesto; e comunque, anche se può sembrare una stranezza, ma in realtà accadeva non di rado, l’opera risentì, a livello di apprezzamento popolare, della scelta del Perugino di riutilizzare cartoni precedenti, progettati per altri affreschi, quindi un po’ troppo somiglianti ad immagini già viste.

È probabile, inoltre, che il Perugino si sia avvalso dell’aiuto dei giovani collaboratori della sua bottega, conosciuta, apprezzata e ottimamente frequentata, con l’identificazione, da parte di alcuni studiosi, dell’apporto di Andrea d’Assisi e, pare, di Raffaello, il quale, in quel periodo specifico, veniva dato presente in quel di Firenze…

Filippino Lippi (1457-1504), Deposizione dalla croce, 1504/1507, olio su tavola, 334×225 cm., Firenze – Galleria dell’Accademia
Immagine: webPubblicità

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