Film da vedere (o rivedere): ‘Il giardino dei Finzi Contini’ di Vittorio De Sica. Con Lino Capolicchio e Fabio Testi

di Luca Biscontini

Il giardino dei Finzi Contini è un film del 1970 diretto da Vittorio De Sica, tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani.

Prodotto da Arthur Cohn e Gianni Hecht Lucari, sceneggiato da Vittorio Bonicelli e Ugo Pirro, con la fotografia di Ennio Guarnieri, il montaggio di Adriana Novelli, le scenografie di Giancarlo Bartolini Salimbeni e Mario Chiari, i costumi di Giancarlo Bartolini Salimbeni e Antonio Randaccio e le musiche di Manuel De Sica, Il giardino dei Finzi Contini è interpretato da Lino Capolicchio, Dominique Sanda, Fabio Testi, Helmut Berger, Romolo Valli, Camillo Cesarei, Inna Alexeievna, Katina Morisani.

Il film vinse il premio Oscar al Festival di Berlino, l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, due David di Donatello (miglior film, David Speciale a Lino Capolicchio), due Nastri d’Argento (migliore attore non protagonista a Romolo Valli, migliore scenografia a Giancarlo Bartolini Salimbeni) e un Globo d’Oro (miglior attore rivelazione a Fabio Testi).

Trama
Siamo a Ferrara, negli anni che preludono la Seconda Guerra Mondiale; anche in Italia sta per prendere il via la politica antisemita. Nella lussuosa villa dei Finzi Contini, un’antica e aristocratica famiglia ebraica, si susseguono vicende quotidiane, amori ed equivoci sentimentali tra i rampolli più giovani. Ma questi drammi amorosi vengono ben presto sopraffatti dal crudele dramma storico costituito dalla guerra e dalle deportazioni.

“Contrariamente al romanzo di Bassani, il film diretto da De Sica non utilizza la tecnica dell’io narrante, che per il romanzo venne dalla critica rapportato allo stesso autore. Tuttavia, pur seguendo il regista una narrazione filmica fondata sui dialoghi, l’io narrante del romanziere coincide col ruolo del protagonista, Giorgio. Contrariamente al romanzo di Bassani, Il giardino dei Finzi Contini si chiude con l’episodio della deportazione. Nel romanzo, Giorgio, fuggito in tempo all’estero, racconterà la storia della sua giovinezza e del suo primo amore impossibile, rievocando i fatti a distanza di 14 anni. Inizialmente Giorgio Bassani cooperò alla stesura dei dialoghi e della sceneggiatura del film ma dopo alcuni disaccordi e malintesi, lo scrittore e il regista entrarono in aperto conflitto (anche a causa del fatto che nel film la relazione tra Micòl e Malnate viene resa esplicita, cosa non presente nel romanzo). Bassani chiese ed ottenne che venisse tolto il suo nome dai titoli di coda del film.

Se Bassani non ebbe torto nel ripudiare una versione cinematografica che indubbiamente resta alle soglie del suo romanzo misterioso (ma è dubbio che qualunque altro regista l’avrebbe mandato soddisfatto), De Sica ha la sua parte di ragione nel voler essere giudicato per un film che, indipendentemente dal libro che ha alle spalle, è ormai uno spettacolo autonomo, e come tale vuol persuadere il pubblico con timbri e sapori suoi propri, adeguando l’equilibrio dei toni e la serietà dell’assunto alle esigenze del mercato cinematografico. De Sica ha lavorato di fino, con modi ariosi ma sottili e tinte smorzate, nella speranza generosa di suscitare un contrappunto fra l’ambiguità dei personaggi e della storia d’amore e il crescente malessere provocato nella comunità ebraica dai primi segni della persecuzione razziale, per cui viene il momento che il giardino dei Finzi Contini è insieme un ghetto e un rifugio.

Ciò che preme sottolineare è che Il giardino dei Finzi Contini di De Sica, ispirandosi liberamente al libro di Bassani, gli è infedele nella precisa misura in cui il cinema, più per la necessità di andare incontro al pubblico grosso che per l’opposta natura dell’immagine e della parola, tradisce sempre la narrativa di carattere intimistico. E tuttavia ci sembra che De Sica profitti di questa infedeltà per offrirci uno spettacolo né volgare né sciocco. Se mai disegnato nella cera, detto in sordina e mosso in una luce di crepuscolo: il che, in un cinema di sangue e di fiamme, fa consolante novità”.
(Giovanni Grazzini, Il Corriere della Sera, 5 Dicembre 1970

Luca Biscontini per MondoSpettacolo

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