Film da vedere (o rivedere): ‘La la Land’ di Damien Chazelle. Con Ryan Gosling ed Emma Stone

di Luca Biscontini

La La Land è un film del 2016 scritto e diretto da Damien Chazelle. È stato il film di apertura della 73ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia, dove Stone ha vinto la Coppa Volpi per la Migliore Interpretazione Femminile. Ha ricevuto 14 candidature ai Premi Oscar 2017, eguagliando il record di film come Eva contro Eva e Titanic, aggiudicandosi infine 6 statuette. Si è aggiudicato sette Golden Globe, su sette candidature, il Premio del Pubblico al Toronto International Film Festival e molti altri numerosi riconoscimenti internazionali, diventando uno dei film più premiati e apprezzati del 2016. Con Emma Stone, Ryan Gosling, Finn Wittrock, J.K. Simmons, Sonoya Mizuno, Rosemarie DeWitt, John Legend, Jason Fuchs, Jessica Rothe.

Trama
Mia (Emma Stone), un’aspirante attrice, e Sebastian (Ryan Gosling), pianista jazz, incrociano le loro strade a Los Angeles. Entrambi sognatori, si innamorano e si ritrovano a condividere sogni, speranze e illusioni. Così come li ha uniti, la città può anche distruggerli: bilanciare amore e arte può risultare essere più difficile di quanto credevano.

“Se provate a fermare qualcuno che abbia tra i venti e i trent’anni in giro per Hollywood (ma la stessa cosa potrebbe accadere a Williamsburg/New York, Shoreditch/Londra, Neukölln/Berlino etc.) e chiedergli what you do in life? (domanda che in inglese è ambigua, perché sta a metà tra “che lavoro fai?” e “qual è la tua passione nella vita?”), la risposta – con uno spettro di variazioni minimo – sarà: “faccio lo sceneggiatore”, “faccio il DJ”, “faccio l’attrice”, “suono in un gruppo” etc. È solo insistendo che si verrà a sapere la realtà della propria condizione: “sì, nel frattempo lavoro in un coffee shop”, “intanto faccio il postino per pagare le bollette”, “ho un part-time in un ristorante”. Insomma i miei sogni e la mia identità stanno da una parte, ma nel frattempo, intanto, temporaneamente…

È la grande contraddizione della cosiddetta “classe creativa” ai tempi della gentrification delle grandi metropoli occidentali (e dell’impennata dei valori immobiliari data dalla finanziarizzazione dell’economia): immaginarsi di accedere a un’èlite di lavori culturali al top mentre le città si riempiono di un’enorme quantità di pessimi lavori dequalificati. La temporalità di questa generazione è allora quella del transito e dell’interstizio (appunto, i “nel frattempo”, gli “intanto”, i “temporaneamente”), mentre la spazialità è quella divisa tra la realtà di una condizione di impoverimento, e l’immaginario “stellare” dei propri sogni. Il problema è: come riuscire a starci in mezzo?

È proprio questa contraddizione che viene messa in scena in La La Land, il bel film d’apertura di questo Festival del Cinema di Venezia, e a cui il regista Damien Chazelle prova a dare – ed è una scelta che non possiamo che giudicare azzeccata – la forma del musical. È la storia di Sebastian (Ryan Gosling) musicista jazz con la passione per le derive più sperimentali e free, che non volendo scendere a compromessi per la sua arte è costretto a suonare canzoncine nei ristoranti della città in cambio di pochi dollari; e di Mia (Emma Stone), attrice-wannabe che tenta di sbarcare il lunario passando da un’audizione a un’altra per piccole particine in serie Tv o in film di cui non le interessa niente, mentre nel frattempo lavora svogliata in un coffee shop degli Universal Studios.

Se la realtà è fatta di lavori sottopagati, traffico infernale, storici locali jazz che chiudono e diventano tapas bar, cinema che scompaiono, feste pacchiane, case piccole e fatiscenti etc., i sogni sono colorati, stellari, tanto irreali quanto affascinanti. E nei sogni, come in ogni musical che si rispetti, si canta e si balla. Pare che in La La Land la vita diventi sopportabile solo quando è filtrata tramite l’immaginario del sogno: e infatti le parti musicali – e in questo senso Chazelle dimostra di comprendere efficacemente la posta in palio formale del musical – si vengono a inserire proprio nei momenti di frattura e contraddizione, in cui la realtà mostra più chiaramente degli opposti inconciliabili. E c’è bisogno di un gesto di fuga.

Un film del genere non poteva che essere ambientato a Los Angeles. È proprio la città californiana uno dei veri protagonisti del film (molti i luoghi riconoscibili della città: dal Griffith Observatory alle Watts Tower, da Studio City alle colline di Hollywood) e questo per un motivo molto semplice: è Los Angeles la città per eccellenza dove il problema dei sogni e della realtà viene messo a tema; dove sembra che persino l’urbanistica e le stesse strade siano fatte di sogni e d’immaginario (come si vede in Los Angeles Plays Itself di Thom Andersen). È questo che ha fatto di Los Angeles la città che storicamente è stata identificata con il progetto americano di realizzazione dei propri desideri. Ma se il cinema americano ha spesso saputo guardare anche all’ “altra faccia” di L.A. – la Hollywood dei boulevard of broken dreams; quella dei dive bar, degli strip club di Hollywood, delle prostitute e dei loser: quel cinema insomma che ha saputo guardare al sogno di Los Angeles dal punto di vista del disincanto – il musical è invece un genere che per ragioni quasi strutturali non può che prendere seriamente i sogni. Alla lettera.

Qual è dunque la relazione tra i sogni – che Mia e Sebastian tentano in ogni modo di realizzare – e una realtà disincantata e mortificante? Come fare per trovare una mediazione tra l’immaginario e la realtà? Bisogna forse cedere sul proprio desiderio e perdere la propria autenticità (magari andando a suonare in una band commerciale, nel film interpretata da un bravissimo John Legend)? È forse giunto il momento, dopo l’ennesima delusione, di “crescere” – come dice a un certo il personaggio interpretato da Ryan Gosling – e trovare un lavoro realistico? O i sogni possono diventare realtà? O forse è invece possibile continuare ad abitare questa scissione tra una vita che si nutre unicamente delle proprie illusioni e una realtà di piccoli lavori sottopagati e di povertà e marginalità?

La La Land in questo senso mostra forse il suo limite più grande: quello cioè di non riuscire ad affrontare con la sufficiente radicalità non tanto il difficile rapporto tra sogno e realtà (che a volte nel film pare limitarsi a un problema di dove mettere l’asticella del compromesso) quanto la realtà stessa del sogno. Il sogno insomma non è né una fuga dalla realtà né un’espressione del proprio vero Sé: è in se stesso un’esperienza di scissione. E questa è una delle grandi riflessioni proprio del genere musical. Come veniva sottolineato da Gilles Deleuze in Immagine-Tempo parlando dei musical di Minelli, è lo statuto problematico del sogno la posta in palio del genere: in Yolanda and the Thief o in The Pirate ad esempio, Gene Kelly e Fred Astaire entrano nel sogno di una ragazza, ma questa cosa invece che essere un’esperienza risolutiva non può che portarsi dietro dei “rischi mortali” (ne è un esempio la lunga scena di Fred Astaire in Yolanda and the Thief che termina in modo angosciante con l’attore-ballerino intrappolato e quasi soffocato da delle lunghe strisce di stoffa). Il sogno simbolizzato dalle scene musicali di Minelli, non è “la soluzione” degli impasse della realtà, è semmai la loro messa in forma. Il problema dei sogni insomma non è la loro mancanza di realtà ma il loro “troppo” di reale.

In questo senso il limite del film si esprime anche nel deficit “tecnico” di Emma Stone e Ryan Gosling, le cui coreografie nelle scene di ballo sono al più decorative, ma che non riescono mai a “farsi immagine” in sé stesse e finiscono per rimanere un po’ “a lato” della storia (e non è un caso che le scene coreograficamente più riuscite siano proprio quelle collettive senza i protagonisti, come quella – davvero meravigliosa – attorno alle auto in coda sulle freeway di Los Angeles all’inizio del film). È come se il film riesca a pensare agli intermezzi musicali solo come proiezioni immaginarie “oltre” la realtà stessa, e non come a una forma di compromesso con il reale. Ma questo più che essere un problema del pur ottimo film di Chazelle è – si potrebbe dire – un problema del periodo storico in cui viviamo: dove l’immaginario più che mettere in forma d’immagine le contraddizioni del reale diventa lo strumento per la loro dissimulazione. E un modo per evitare di guardarle veramente”.
(Pietro Bianchi, Cineforum, 27 Gennaio 2017)

Luca Biscontini per MondoSpettacolo

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