DI GIOVANNI BOGANI
61. “Fosforo” (“Facciamo la pace”, in uscita a maggio su Amazon)
Papà, tu che eri il più grato alla vita, di tutta la nostra famiglia.
Tu che mi chiamavi Fosforo, perché da bambino forse sembravo intelligente, un Lamine Yamal che giocava con le parole, e sapeva giocare con i grandi senza paura. Ma in realtà è solo che capivo le parole dei grandi, e non avevo paura di dire quello che pensavo. Tutte qualità che, in fretta, ho imparato a perdere.
***
Papà, che i giorni di pioggia andavi fuori lo stesso, se c’era da fare una commissione. E l’ombrello non lo prendevi mai, esclamando allegro: “Io passo fra goccia e goccia, non lo sai?”.
E io mi chiedevo come facessi a passare davvero fra goccia e goccia. In realtà, passavi fra goccia e goccia di quella pioggia che ti arrivava addosso ogni giorno, nella vita. Passavi fra le gocce degli sguardi perplessi, schifati, derisori degli altri, fra goccia e goccia quando cadevi e ti rialzavi, e non ci dicevi niente, passavi fra goccia e goccia quando ti guardavano come uno che vale meno degli altri. Si parla tanto, così tanto di inclusività, di rispetto, di diversità, ma non c’era nessuna pietà, nessuna accettazione, nessuna simpatia nello sguardo degli altri verso di te, c’era solo una specie di infastidito stupore, di ottuso e qualche volta divertito senso di superiorità; di spazientito livore, quando faticavi a tirare fuori le monete dal portafogli, perché i gesti minuti non li potevi più fare, le tue dita non le comandavi più bene.
E c’era quasi un senso di “poveraccio, ormai non c’è più niente da fare” quando ti vedevano cadere, e ti rialzavano come se tu fossi stato un corpo che valeva meno del loro.
***
Non venitemi a dire di inclusività, che negli sguardi per strada l’ho sentita tutta, la stupida ottusità degli uomini e delle donne, incapaci di vedere al di là di un involucro rotto, di un tamburino meccanico inceppato, di un soldatino di piombo che scivola giù nel ruscello. Incapaci di vedere, in te, nient’altro che questo, incapaci soprattutto di provarne rispetto, e men che meno amore.
Quanto odio avete fatto crescere, in un ragazzino di dieci anni, con tutti i vostri sguardi di superiorità, di ottusità, di scherno, di stupore. Potevate cercare di dissimulare meglio, e invece avete solo cercato una scusa per andarvene, e lasciarci soli. Sempre.
***
Quando passavamo sul marciapiede, quando salivamo sull’autobus, eravamo come due lebbrosi, e io per voi provavo infinita compassione. Per la vostra limitatezza, per la vostra sicumera di persone “normali”, con le mani che non tremano, gli occhi che non guardano fissi, le gambe che non inciampano.
Mi avete insegnato che il mondo non ha pietà né rispetto, e che l’uomo è un animale ottuso. E in questi sessant’anni che sono al mondo, non l’ho visto cambiare. In fondo facevi bene a chiamarmi Fosforo, papà, che ogni tanto m’accendo.
Immagine tratta dal web
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