Furore non l’ho letto.
Furore l’ho divorato, nonostante le sue dense 633 pagine. Voluminoso in carta e in storie vere di vita, anzi, di sopravvita. Il narrato è attualissimo, pur essendo ambientato negli anni 30; è una tragedia umana nota a tutti, ma Steinbeck tra le righe ha nascosto un dono per noi: l’empatia; io non ho letto della storia dei Joad, io ero sulla Route 66 con loro; e sono, oggi, con tutti i Joad passati, presenti e futuri. Soltanto adesso li vedo davvero.
Ora sento il furore, i frutti dell’ ira, i “Grapes of Wrath”-grappoli dell’odio (titolo originale e passaggio dell’Apocalisse 14:19-20).
Furore è uno spaccato di eternità, una storia che si ripete.
Indelebili le figure di Tom, di sua madre e, personalmente, dell’ex predicatore Jim Casy, un uomo che ha smesso di essere trascendentale per vedere ciò che c’è di trascendente nella materia. C’è un po’ di Tom in tutti noi, così come un po’ di Casy, di Al, di zio John, di Ma’ e di Mulay. Il finale è soprendente, con un gesto d’amore che chiude il cerchio della vita: ciò che c’è alla nascita ci accompagna fino alla fine.
Immagine tratta dal web
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