Genitorialità: una questione solo privata?

DI MARINA AGOSTINACCHIO

Un film incredibilmente surreale, film che ci parla di prigionia e disperazione, film assurdo e ugualmente realistico per quel tanto di simbolico a cui rimanda nel suo svolgimento è Vivarium.

Ma che cos’è un Vivarium?. Leggo: dal latino, ‘contenitore per animali vivi’.
Al di là delle diverse interpretazioni a cui il film si presta, (ad esempio l’essere oggetto di “studio di laboratorio” dove i personaggi principali, un lui e una lei, sono le vittime designate per un test di rapida crescita, una crescita spinta oltre misura, o la denuncia di un vuoto di vita, sottolineato da atti e gesti ripetitivi dei protagonisti), forti sono i parallelismi ad un altro film: The Truman Show (Peter Weir, 1997).

Quest’ultimo narra la vita di Truman Burbank, (interpretato dall’attore Jim Carrey), che diviene, a sua insaputa, parte di uno show televisivo e la cui esistenza è sorvegliata fin dal suo concepimento da “un’entità” che riprende con telecamere ogni angolo della sua crescita.

Tornando a Vivarium, sono di scena Tom (Jesse Eisenberg) e Gemma (Imogen Poots) una coppia che progetta un futuro di vita condiviso. I due ragazzi trovano, su indicazione di Martin, responsabile di un’agenzia immobiliare, una località fuori città, Yonder (laggiù, in lingua inglese) che a definirla inquietante, impersonale, fredda, dedalica è poca cosa, se si pensa che avrebbe dovuto essere il luogo ‘dei sogni’, la realizzazione di un’aspettativa di vita che avrebbe offerto a Tom e Gemma un senso esistenziale, forse smarrito.

A sottolineare l’asetticità del contesto abitativo e della casa dal civico 9, il cibo che viene consegnato giornalmente da in ente invisibile, cibo insapore e impacchettato in confezioni disidratate. Tom e Gemma, per quanto cerchino di fuggire da un quartiere di case verdi, case identiche, immerso in un silenzio atipico, e completamente vuoto, con giardinetto di erba che pare sintetica, su i cui tetti immobili nuvolette tutte di forma innaturale, sospese senza un alito di vento che dia motivo di movimento vitale, si ritrovano imprigionati e rassegnati a sopravvivere senza via di uscita.

Tom arrampicandosi sul tetto della casa vuole capire se riesce a individuare una via di fuga ma scopre che il quartiere si allunga all’infinito da ogni parte, fino all’orizzonte. Questo quartiere, secondo il mio punto di vista, è simbolo di esclusione da un’appartenenza comunitaria, dove anche un cammino privato diviene condiviso se riconosciamo il valore del senso di essere comunità che aiuta a crescere a suddividere e a moltiplicare i sentimenti, il lavoro, le responsabilità.

Un giorno i due giovani trovano in una scatola un bambino piccolo, un bambino che diventerà grande di tre mesi in altri pochissimi mesi, sempre più grande in un lasso di tempo che non è un tempo rispettoso delle leggi di gravità, un figlio che nessuno dei due giovani avrebbe voluto, a cui si ribellano anche perché questo “alieno”, incapace di immaginare, di sognare e di pensare autonomamente, ha modi comportamentali ripetitivi, che progrediranno, nella crescita precocissima, in una scala mortale di atteggiamenti indisponenti, mordaci, impudenti, malvagi.

Tom e Gemma rappresentano un involucro in cui calare sentimenti, contraddizioni, desideri, istinti, gesti e ruoli che tutti abbiamo imparato ad indossare da epoche remote.
Se Gemma – rivolgendosi al bambino improvvisato figlio – ripeterà come un mantra “non sono tua madre”, finirà poi per prendersene cura, nei momenti che avvertirà pericolosi per il piccolo, – minacciato in più di un’occasione da Tom – e immolandosi, contesa nei sentimenti, tra le due figure maschili – compagno e pseudo figlio – quale agnello sacrificale.

Tra gli interrogativi che potrebbero sorgere alla visione di questo film c’è quello del chi e perché l’essere donna comporti il doversi annullare per l’altro al punto da sciogliere il senso di sé stessi nella costruzione di una gabbia in cui chiudersi e serrare le esistenze altrui, (come nel sacco di plastica in cui l’alieno, serra, sottovuoto, non solo i genitori putativi ma anche l’entità creatrice, l’agente Martin), impedendo la reale crescita e l’autonomia di coppia e di vita del figlio.

Il tema della genitorialità, qui come una delle possibili piste interpretative, si affaccia a denunciare un contesto sociale e politico strutturato e consolidato negli anni che vede la donna come sola indispensabile donatrice di attenzioni, di pratiche, la sola dispensatrice di affettività, di emozioni forti, di sentimenti estrinsecati, di abbandoni espressivi, di rivelazioni di sé attraverso un corpo fatto e disfatto nella metonimizzazione della muscolatura del volto, nel tono della voce, nella postura dritta, ripiegata, crollata…

Gemma, stremata, pur rifiutandosi di sentirsi la madre del ragazzo, alla fine si arrende, non prima che il figlio cresciuto le abbia dichiarato che una madre è destinata a crescere un bambino e a morire. Così la chiude in un sacco, la seppellisce viva nella buca scavata da Tom.

E l’uomo? Anch’egli si fa e si disfa in gesti ripetitivi consegnategli dal tempo e nel tempo dal “contesto”. Lui, di fronte alle difficoltà, si concentra nel lavoro; nel film Tom è il giardiniere della scuola dove Gemma insegna ai bambini piccoli e prosegue ad esserlo nella situazione irrealistica in cui si troverà a vivere. La sua salute fisica e mentale peggiorerà fortemente, anche a causa delle polveri dello scavo.

Anche nel villaggio di Yonder “si adagerà” nella sua mansione di “scavatore di terra” fino a che la stessa terra, rimossa con una vanga all’infinito e fino alla sfinitezza dell’uomo, l’accoglierà, gettato in un sacco dal figlio cresciuto.
Sembra dunque indicarci Lorcan Finnegan, il regista, nonché lo sceneggiatore di Vivarium, che la vita, tanto agognata, di coppia si potrebbe rivelare, prima o poi, una trappola entro cui ci troveremmo volenti o nolenti ad essere imprigionati.

Non solo. Le trappole così costruite, preparerebbero all’agonia dei figli che vorremmo tenere, conservare, non rendere persone mature e responsabili.
Ma dalle trappole, si sa, ci si può liberare.

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