DI ILARIA PULLE’DI SAN FLORIAN
La caratteristica espressività di George Bellows, nato a Columbus, nell’Ohio, sul finire dell’Ottocento, permette di identificarlo come uno dei più emblematici artisti degli Stati Uniti.
Dopo i primi studi si trasferisce a New York, dove inizia a lavorare come illustratore – dettaglio che lo accomuna a Edward Hopper, la cui carriera di pubblicitario influenzerà non poco il modo di porsi e rapportarsi a situazioni e pubblico – e non abbandonerà tale mansione nemmeno in seguito, a prescindere dal successo raggiunto.
In effetti, ed è piuttosto evidente, Bellows ha più di un punto in comune con Hopper; in ogni caso, grazie anche alla vicinanza con Robert Henri, suo primo insegnante di formazione, egli si dedica al raggiungimento di uno stile originale e sintetico, in grado di collegare la tradizione realista europea e la più diretta immediatezza americana.
I dipinti di Bellows non appaiono esattamente semplici: mentre alcuni si dirigono a catturare l’aspetto direttamente realistico relativo a determinati aspetti della quotidianità, come la condivisione dello sport. L’artista ha all’attivo una notevole e proficua esperienza sportiva, tanto che diverse squadre di baseball e basket gli suggeriscono la possibilità di intraprendere una vera e propria carriera professionistica.
Proposte rifiutate a seguito della preferenza accordata all’arte; uno scontro di passioni, la cui scelta viene, con facilità, determinata anche da pressanti attenzioni riguardanti i temi sociali.
L’indole specifica dell’artista, permeata inoltre da una forte necessità di rendere movimento e azione al limite del caos, risulta incredibilmente incline ad assecondare le palesi contraddizioni di una società che alterna ambiti di indiscussa ordinarietà a manifestazioni di dionisiaca classicità, quest’ultima apparentemente mutuata dalle sculture classiche, eppure ricondotta ad un contesto di straordinaria consuetudine, persa tra anonimi spettatori più simili a macchiette che a protagonisti caratteriali.
L’abilità del pittore di rendere il dinamismo attraverso l’energia prorompente di pennellate e colori, non si esimerà dall’essere riprodotta anche nei paesaggi, sia urbani che non, rappresentati.
Bellows si cimenta sull’amato Maine, e su alcuni specifici territori appartenenti a questo stato, come Monhegan, la cui denominazione significa terra sul mare, e che certamente non si discosta dalle caratteristiche dello stato cui appartiene: lo stato più a nord-est degli Stati Uniti, dal meteo vivacemente variabile con conseguente clima variegato ed estremo, non manca tuttavia di conquistare grazie ai propri paesaggi di straordinaria bellezza: uno dei motivi per cui ogni anno, il Maine, a dispetto delle difficili condizioni abitative, resta tra le più gettonate mete turistiche.
Anche lo scrittore Stephen King, che vi abita da sempre, l’ha eletto a propria roccaforte inattaccabile, ambientandovi numerosi suoi romanzi, tra l’altro estremamente istruttivi sulla geografia fisica e politica del luogo, ed è sempre nel Maine che si muove l’investigatore, uscito dalla penna dello scrittore John Connolly, Charlie ‘Bird’ Parker, il cui nome mostra peraltro una curiosa assonanza col famoso jazzista.
L’artista, inoltre, non rinuncia a ricollegare la propria straordinaria abilità di rendere pittoricamente il famigerato freddo gelido di New York – anni fa, qualcuno ironicamente auspicò un avvento del riscaldamento globale, proprio per contrastare questa caratteristica della Big Apple – alla possibilità di rappresentare passaggi di evidente denuncia sociale.
Prende in tal modo forma Men of the docks, contrastante dipinto in grado di porre all’attenzione dello spettatore lo skyline di Manhattan, simbolico e materiale fulcro di modernità e capitalismo, e l’attesa di alcuni uomini sulla banchina dell’East River, probabilmente immigrati, le cui caratteristiche lasciano intuire la ricerca di un possibile impiego a giornata per scaricare i mercantili di passaggio.
Gli sguardi, prevalentemente diretti verso la sinistra del dipinto, suggeriscono l’attesa per uno sperato messaggio di conferma, allo stesso modo in cui oggi, tanti lavoratori occasionali, come i rider, si incontrano sovente agli angoli delle strade, fermi a consultare i cellulari in attesa di una chiamata; circostanza già letta e interpretata nel film Ladri di saponette, di Maurizio Nichetti, i cui scorci drammatici, chiudendo il cerchio, entrano poi in contrasto con la surreale logica commerciale dominante.
Considerato lo scarso entusiasmo percepibile, accentuato da un clima tetro in maniera quasi teatrale, le opportunità di lavoro appaiono piuttosto ridotte, in nome di una evincibile precarietà che Bellows non esita a rimarcare.
Il dipinto è menzionato anche in un articolo del noto periodico dell’epoca The Craftsman, in quanto ‘libero dall’affezione dell’anima e della tecnica’, a riprova di una manifestazione realistica tendente a fotografare la situazione, liberandola da inutili orpelli edulcoranti…
George Bellows (1882-1925), Men of the docks, 1912, olio su tela, 114.3×161.3 cm., Londra – National Gallery
Immagine: web
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