Giorgio Diritti, il suo Ligabue è il trionfo degli ultimi

DI GIOVANNI BOGANI

 

Sette David vinti, fra cui quello per il miglior film, per la miglior regia, per il miglior attore protagonista, Elio Germano.

Volevo nascondermi esce allo scoperto, si prende il palcoscenico dei David. Ed esce in sala, di nuovo, da oggi.

È l’ approdo di un lungo cammino, iniziato più di un anno fa, con l’ Orso d’ argento vinto al festival di Berlino per il miglior attore, dedicato alla vita, ai tormenti, all’ arte e alla malattia, alla fragilità e alla «diversità» del pittore Antonio Ligabue. Lo stesso al quale, più di quarant’ anni fa, aveva dedicato un bellissimo sceneggiato il regista Salvatore Nocita, con il pittore interpretato da un turbinoso e travolgente Flavio Bucci.

Nella sera dei David, segnata anche da un altro trionfo “made in Emilia Romagna”, ovvero i tre David (due agli attori non protagonisti Matilda De Angelis e Frabrizio Bentivoglio) dell’ Incredibile storia dell’ Isola delle Rose di Sydney Sibilia sull’ impresa utopica di Giorgio Rosa nel ’68 al largo di Rimini, chi mantiene la calma più di tutti è Giorgio Diritti, il regista di Volevo nascondermi.

Bolognese, sessantun anni, un apprendistato con Pupi Avati e con Ermanno Olmi, e il passo lento di chi va per sentieri, di chi fa film con cura artigianale.

Diritti, lei ha dedicato il suo premio ai dimenticati, ai marginali. Ha ricordato il valore di ogni uomo, la preziosità straordinaria di ogni uomo.

«Ne sono convinto. Viviamo tutti i giorni lo scontro fra chi vuole la chiusura verso l’ “altro” e chi vuole l’ incontro. Io sono convinto che se non c’ è incontro, non c’ è scambio, non c’ è evoluzione umana».

Quale senso ha, oggi, la storia di Ligabue per tutti noi?

«La sua storia dice che ogni persona ha le potenzialità per realizzare il suo sogno, e il diritto di crederci. Ligabue era ultimo degli ultimi, emarginato, deforme, rachitico, maniaco depressivo, autolesionista, espulso dal paese in cui era cresciuto. Eppure ha trovato chi gli ha dato da mangiare, chi lo ha aiutato a scoprire il suo enorme talento artistico».

Il suo film ha avuto una vita travagliatissima. Premiato a Berlino più di un anno fa, uscito coraggiosamente in sala, bloccato dalla pandemia, approdato sulle piattaforme dello streaming. Oggi torna in sala, con sette David vinti.

«E mi fa un piacere immenso: perché i film sono fatti, prima di tutto, perché la gente li veda. E se possibile, su uno schermo grande. Il cinema che faccio io ha una fotografia, degli spazi che “vivono” per la sala. Ciò non toglie che le piattaforme siano state e siano tuttora preziose. Hanno permesso a tante famiglie di vedere film che altrimenti avremmo perduto».

Se si guarda a tutto il suo cinema, ci si accorge che lei parla spesso di diversità e di intolleranza.

«È vero: è un tema che sento importante. Quando arriva qualcuno da fuori, da un altro mondo, ci sono tre possibilità: che ti rubi tutto, che ti dia delle merci che tu non hai, o che ti aiuti a spostare il masso che ingombra la tua strada. Io credo nelle ultime due».

La diffidenza per il «diverso», invece, galleggia nel nostro presente.

«È sempre accaduto: alcuni mediocri si impadroniscono di qualche idea semplice e rozza che aggancia le paure profonde dell’ uomo. E la agitano come un’ arma».

Che cosa ha imparato da questi mesi?

«In questa, che è a tutti gli effetti una guerra, sono le generazioni più anziane a pagare il conto più tragico. E la cosa più terribile è che qualcuno ha detto “vabbè, tanto sono vecchi”. È già una forma discriminatoria, è già una forma di razzismo. Giudicare chi merita di vivere e chi può anche morire è l’ anticamera dell’ orrore».

Per lei, personalmente, che significato assume questo David?

«La sensazione che c’ è voluto tanto tempo e fatica, ma che alla fine ne valeva la pena».

Sta lavorando a un prossimo film?

«Sì. È un film tratto dal romanzo Il seminatore di Mario Cavatore. La storia di uno zingaro Jenisch, che viveva in Svizzera e al quale vengono portati via nel 1939 i figli, per le leggi dell’ epoca. Anche in Svizzera il nomadismo era considerato una piaga sociale».

Da www.Quotidiano.net

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