Giorgio Morandi, Natura morta

DI ILARIA PULLE’DI SAN FLORIAN

Morandi è un artista estremamente particolare, il cui temperamento schivo e riservato, lo porta a condurre un’esistenza ritirata e tendenzialmente solitaria.

Colpito dallo stile impressionista, conosciuto attraverso le descrizioni di Ardengo Soffici, mostra una peculiare attenzione verso Cézanne, su cui ama ragionare, così come su Giotto, Paolo Uccello e Piero della Francesca.

Il suo profondo spirito meditativo lo porta a studiare gli oggetti rappresentati in modo innovativo, desiderando coglierne la pura essenza, evitando di soffermarsi alla semplice apparenza.
Morandi, a questo scopo, sceglie di non ritrarre figure umane, monopolizzato dagli oggetti, unici elementi sempre uguali a loro stessi; rimane, tuttavia, il ruolo fondamentale dell’artista, il quale può, attraverso la raffigurazione, fornirgli una vita, modificandone il momento spirituale.

È il motivo per cui i dipinti di Morandi, pur in una apparente ripetitività, non decadono nella monotonia, forti di variabili percettibili, in grado di conferirgli, ogni volta, nuova espressività.
Nell’ottobre 2015, tuttavia, il Center for Italian Modern Art di New York, allestisce una mostra inedita, diretta a raccontare il Morandi meno conosciuto – quello degli anni Trenta – in cui l’artista non manca di indugiare su alcuni autoritratti.

Si tratta di opere meno tradizionali e più sperimentali, tali da mostrare un autore differente da quello tradizionale; quello stesso che osserva lo spettatore, pur non compartecipe delle sue impressioni. Lo sguardo vacuo e l’atteggiamento inerte, oltre alla scarsa definizione dei dettagli – abituati, come si è, ad una precisione al limite del maniacale – ci consegnano qualcosa di inedito e diverso. Più umano, ma senza esagerare, mostrando una discreta confidenza diretta a condividere, ma non a conquistare.

Anche se riservata, non una vocazione propriamente da eremita: sguardo indagatore, ragionevolmente diffidente; colto all’opera e mai scortese.
Le sue nature morte rimangono comunque emblematiche, la cui realizzazione indugia su percorsi intellettuali ed introspettivi che prescindono da ricerche innovative, dato che Morandi preferisce soffermarsi sull’aspetto meditativo dell’opera, elevandone geometricità e relativo rigore, quest’ultimo addolcito da leggere sfumature dei contorni in grado di armonizzarne figure e stile, ad una dimensione superiore di intima comprensione.

Un passaggio fondamentale, quello che l’autore compie dall’iniziale periodo metafisico, austero e controllato, all’indulgente manifestazione di una soave neutralità, più duttile e meno malinconica, poiché, seppur inizialmente influenzato dal collega Giorgio de Chirico, mantiene un innegabile distacco, segno esemplare di una personalità priva di cedimenti.

Interessante quanto rilevava lo storico dell’arte Francesco Arcangeli – teorie riportate anche da Vittorio Sgarbi nelle sue Lezioni private – a proposito di alcuni parallelismi derivanti dallo studio della storia dell’arte secondo l’ipotetica trasmissione di una serie di elementi, identificativi di autori o correnti, atti ad essere tramandati a prescindere da tempo e spazio.

Innovazioni talmente importanti e determinanti, da comportare la rilevazione in nuce di fattori destinati a diventare pietra fondante sia di successive civiltà che di progressiste formae mentis.

Allo stesso modo in cui Wiligelmo si ritrova accostato a Pollock, secondo un abbinamento inizialmente percepibile come audace, ma via via più comprensibile addentrandosi nel profondo discorso del pensiero, unico principio in grado di prescindere da tempo e spazio, Morandi si avvicina a Giovanni Maria Crespi: simile la concezione della natura morta, per entrambi qualcosa di superiore e differente rispetto al semplice oggetto inerte.

Una concezione riformista, la cui latente umanità finisce per mostrare un oggetto vivo, allo stesso modo in cui Crespi, incaricato di simulare l’ovvia realtà – quanto di più prevedibile, in un istituto musicale, come la presenza di libri e spartiti a tema – interviene come nessun altro avrebbe meditato, rappresentando sì gli oggetti richiesti, ma lungi dal limitarsi all’ordinaria proposizione di una schematica scaffalatura, letteralmente connotando di un afflato di vita l’intero contesto, che improvvisamente si anima di presenze invisibili che quei libri hanno mosso, toccato, consultato, talvolta lasciato in disordine, e di cui si sono presi appunti come si evince dalla presenza di pennino e calamaio, Morandi infonde quella stessa vitalità negli oggetti inanimati.

Quella vita che racchiude il mondo, e non è importante se il mondo di Morandi, fulcro della sua esistenza, ruota intorno ad un luogo chiuso e limitato, poiché è proprio quell’ambiente, tramite il tocco dell’artista a trasformarsi in mondo intero, universo, regno indiscusso e incontrastato dell’essere e dell’esistere, seguendo una visione petratchesca – lo scrittore Massimo Bontempelli trovava Morandi affine a Petrarca, il quale vedeva il mondo tramite Laura – inaspettata solo quando non predisposti, o disposti ad accettarla.

La natura morta che di morto non ha nulla, al contrario, al pari dei solidi, ieratici volumi di Crespi, origina e salvifica la materia…

Giorgio Morandi (1890-1964), Natura morta, 1955, olio su tela, 43.2×61.6 cm., Chicago – Art Institute of Chicago
Immagine: web

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