Giulio Campi, il gioco degli scacchi

DI ILARIA PULLE’DI SAN FLORIAN

Giulio Campi, figlio di Galeazzo e fratello di Vincenzo e Antonio, anch’essi pittori – Bernardino Campi, un altro artista, è un lontano parente – è un esponente del cosiddetto manierismo lombardo.

Ma non solo: il suo stile, prettamente originale, come del resto lo sarà quello dei familiari, mescola gli elementi di tale corrente pittorica con quelli della scuola veneziana, oltre a mutuare singolari influenze sia fiamminghe che tedesche.

Talvolta ricordato come il Ludovico Carracci di Cremona, quest’ultimo appartenente all’Accademia degli Eclettici di Bologna, attraverso i propri intensi cromatismi mostra alcune suggestive contaminazioni di autori bresciani ed emiliani, e si afferma anche come ritrattista di successo tramite un modus operandi elaborato e sofisticato.

Un’arte, quella del Campi, spesso orientata verso il sacro – celebre, uno dei sui primi dipinti: La Vergine in trono tra i santi Nazaro e Celso – in cui si intravedono le affinità con Moretto da Brescia e con Girolamo Romani detto il Romanino.

Sconosciuta la data di nascita, ma si presume l’anno, il 1502, è invece nota quella di morte, il 5 marzo del 1572.
Partita a scacchi, innesca l’immediato confronto col medesimo soggetto realizzato, qualche anno più tardi, dalla pittrice Sofonisba Anguissola, tanto che, inizialmente, viene attribuito proprio a questa artista.

Considerata la tipologia del dipinto è probabile si riferisca ad una circostanza nuziale, data l’interpretazione del contesto, probabilmente riferibile non tanto ad un semplice gioco quanto ad una schermaglia amorosa, in cui gli scacchi appaiono come un semplice pretesto.

La scena, piuttosto complessa, vede la presenza di numerosi spettatori posti intorno all’ipotetica competizione, i cui protagonisti, presumibilmente Marte, travestito da guerriero e visibile solo di spalle, e Venere, luminosa e prorompente nella propria grazia vincitrice, si affrontano nell’eterno conflitto, spesso dominato dall’elemento amoroso.

La donna peraltro, attraverso un sistema di atteggiamenti e sguardi, pare celare una tresca con il buffone di corte, apparentemente voltata verso le proprie ancelle, chiamate a consiglio riguardo l’esecuzione di una mossa, più probabilmente mero riferimento ad una consueta complicità femminile.

La stessa catenella, che sfoggia appesa ad un cinturino, singolare accessorio di moda tipico del Cinquecento, è agganciata ad uno zibellino, noto simbolo di fertilità e per questo motivo riservato alle donne sposate.

Un dettaglio presente anche nel ritratto di Bianca Ponzoni Anguissola, ad opera di Sofonisba Anguissola.
L’uomo sulla sinistra, invece, sul cappello ha un cammeo, decorato con Venere cacciatrice, che ricorda l’Allegoria di Poldi Pezzoli, anche se il tradizionale elemento del teschio, palese attributo di bellezza e vittoria effimere, è qui sostituito dal particolare del buffone.

Il giovane malinconico, rivolto verso lo spettatore, è identificabile con lo stesso autore, mentre l’uomo appoggiato al tavolo – individuato dall’illustre Roberto Longhi – è suo padre, Galeazzo, entrambi riconoscibili attraverso ritratti certi.

Curioso il linguaggio di stereotipi in relazione all’effettiva presenza dei pezzi degli scacchi rappresentati, probabilmente legato ad una apertura della dama consistente nel gambetto – 1.d4/2.c4 – mossa descritta dallo scacchista spagnolo Luis Ramirez de Lucerna già nel 1497, ed in seguito divenuta molto popolare intorno alla fine dell’Ottocento.

Un gioco, del resto, quello degli scacchi, che sovente si presta a simbolismi ed ambigue interpretazioni, per quanto spesso ad esclusivo appannaggio di giocatori e praticanti.

Nota la polemica di qualche anno fa, a proposito di uno spot girato in occasione del referendum sul nucleare, in cui le mosse dei due contendenti, analizzate da esperti, parevano sottintendere altro rispetto a quanto apparentemente dichiarato…

Giulio Campi 1502 – 1572
Il gioco degli scacchi (1530/32)
Olio su tela (90 x 127 cm)
Torino – Museo Civico d’arte antica

 

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