DI ILARIA PULLE’DI SAN FLORIAN
1975, A night at the opera; 1976, A day at the races.
Due album musicali dei Queen, potenzialmente un doppio di cui il gruppo aveva fortemente auspicato la pubblicazione, liberamente ispirati ai titoli di una coppia di celebri film dei Fratelli Marx, a cavallo, nel vero senso della parola tra teatro e corse ippiche.
E i film dei surreali comici americani sono casualmente datati 1935 e 1937, anch’essi supportati l’un l’altro da una lungimirante assonanza lessicale.
Una sorta di fil rouge teso ad unire vinili e pellicole mossi tra, e da, lustri.
Quel cinque ricorrente che ne origina l’artistica duplicazione, e che casualmente nemmeno ne ferma la storia, vagando a ritroso fino ad un secolo prima, siamo nel 1875, quando il pittore italiano Giuseppe de Nittis immortala il sonnacchioso, vagamente annoiato Ritorno dalle corse, che qualche anno dopo rivivrà nello sfrontato ritratto della madame ritratta nella medesima circostanza: quest’ultima, accompagnata da un cane mastino di notevoli dimensioni, nonché dotata di un frustino d’ordinanza degno dell’ex fuorilegge messicano Montales, amico di Tex Willer, appare quasi minacciosa nel misterico mattino invernale, circostanza peraltro sottolineata dallo stesso Philippe Daverio.
De Nittis coglie l’atmosfera rarefatta reduce dalle didascaliche visioni di Manet, e dal più effervescente dinamismo di Edgar Degas, disposti a rappresentare attesa e corsa, mentre l’artista pugliese ne cattura il quieto susseguirsi di emozioni vissute e tese a sedimentarsi, e vede in quelle figure, ormai scomposte, abbandonate dalla tensione di Longchamp, la prospettica aspettativa di una definitiva serata in speranzosa veduta notturna.
Sulle rive della Senna, e non solo.
Tra le rive della Senna, e quelle del Tamigi, come Marta Santacatterina, nel 2013 per Artribune intitola il suo articolo diretto a sottolineare l’incredibile incastonarsi di un artista italiano, uno dei pochi, nell’ambizioso contesto di un’Europa, a tutti gli effetti, conquistata, Giuseppe de Nittis è un pittore di forte personalità, disposto all’anticonformismo, piuttosto che soggiacere alle regole di ambienti o movimenti, per quanto provvidenzialmente utili alla propria carriera.
Non a caso, trascorso un periodo napoletano in cui si dimostra un ottimo paesaggista dal vero – nella città partenopea, farà parte della Scuola di Resina, opposta all’accademismo di Domenico Morelli – si sposta a Firenze, nell’ambiente dei Macchiaioli, per poi approdare appunto a Parigi, dove prenderà contatto con gli Impressionisti.
Nonostante un indiscutibile successo, che lo condurrà alla memorabile esposizione del 1874, dimostra fin dall’inizio una sorta di vaga insofferenza verso i principi cardine del movimento: non è interessato a recepirlo come mezzo atto a dimostrare la transitorietà della vita, al contrario, come dimostra l’opera proposta, si limita ad evincerne gli aspetti legati a fascino ed eleganza.
Un modo di essere, e di esprimersi, che lo trasformerà in artista ricercato dalla società borghese parigina, ma non gli permetterà altrettanta stima da parte dei colleghi impressionisti, anche se quest’ultimo dettaglio non si rivelerà, tutto sommato, determinante: Parigi, come ricorda Emanuela Angiuli nel saggio-catalogo abbinato all’imponente mostra padovana del 2013 a lui dedicata, rappresenta per l’autore partenopeo la reale rivelazione di una entusiastica modernità – sempre Daverio non esiterà ad intitolare uno dei suoi saggi Il secolo lungo della modernità, riferimento a quell’Ottocento allora mai visto, e mai più replicabile, fulcro pulsante e pensante di un’epoca unica destinata parametralmente a fissarsi nell’immaginario collettivo, tra i menzionati ‘salotto del principe Miškin, ne L’idiota, di Dostoevskij o le ansie sociali dei Dambreuse nell’Educazione sentimentale di Flaubert’ elevati a punti di riferimento tuttora attualmente emblematici – sospesa tra sensibilità letterarie e trasformazioni urbanistiche.
Un mix già elettrizzante con un autore dotato di altre frecce al suo arco, prima fra tutte, la compagna Léontine, autentica chiave di volta di una carriera costruita e ispirata, che l’artista non mancherà di sottolineare attraverso una serie di opere destinate a consegnarli entrambi alla storia.
Quegli stessi dipinti che potrebbero sembrare semplici, doverosi ritratti, quanto di più comune si possa trovare quando si ha a che fare con la consorte di un artista affermato, considerando lo speciale rapporto tra i due coniugi, rappresentano certamente qualcosa di più.
Celebrazione, omaggio, dono; sì, poiché Léontine De Nittis, compagna di vita, è qualcosa di più di tutto questo, e probabilmente non è lei la donna in primo piano pigramente reclinata, ma potrebbe tranquillamente esserlo: tra quella moltitudine di individui via via sempre meno distinguibili, la cui occasione di divertimento non riesce a ridimensionarsi a quel livello di popolarità tipica delle corse di cavalli nostrane.
Così Belle Époque; so très charmant, my dear, so adorable…
Giuseppe de Nittis (1846-1884), Ritorno dalle corse, 1875, olio su tela, 58.1×114.6, Philadelphia – Philadelphia Museum of Art
Immagine: web
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