Gli #occhiali, un segno distintivo ma non solo

DI GIOVANNI BOGANI

Gli occhiali sono stati la cosa più preziosa che ho avuto. Fin da piccolo, perché mi permettevano di vedere, di mettere a fuoco un mondo che altrimenti, già a cinque anni, per me era sfocato. Gli occhiali mi hanno permesso di leggere le parole, le prime che ho letto nella mia vita, quelle delle insegne dei negozi. E quelle che leggo in questi giorni, quelle dei sottotitoli nei film della Mostra del cinema.

Gli occhiali mi hanno permesso di leggere i nomi di città lontane nei tabelloni dei treni, nelle stazioni di tutta Europa. E poi i nomi di città ancora più lontane, nei display degli aeroporti del mondo. Senza occhiali, senza questa invenzione apparsa alla fine del Medioevo, la mia vita sarebbe stata infinitamente più povera, più circoscritta, con un orizzonte di pochi metri, e un enorme quadro impressionista tutto intorno, come le Ninfee di Monet.

Sono stati, certo, anche una condanna. “Quattrocchi”, “sfigato”, “non ti spacco la faccia perché hai gli occhiali”, detto con disprezzo, come se fosse una menomazione. A scuola, negli anni ’70, se avevi un paio di occhiali di celluloide nera eri un perdente, un looser. Le ragazze guardavano quelli che giocavano bene a pallone, mica chi aveva gli occhiali, e magari qualche bel voto in pagella.

Poi è cambiato qualcosa. Sono ancora un nerd, probabilmente uno sfigato, ma gli occhiali mi piacciono. Così come mi piace il mio mestiere, guardare film e trasformarli in parole; o mettere insieme parole, farle in qualche modo cantare, e trasformarle in piccoli film, i miei racconti. E mi piace che gli occhiali che ho siano visibili, che raccontino anche loro una storia. Una storia di gioia, o di attenzione, o di fatica, o di percorsi lunghi chilometri: occhiali che hanno viaggiato, che hanno attraversato il mondo. Occhiali che sanno volare fino all’infanzia.

Gli occhiali sono gli unici segni distintivi che ho. Non porto cravatte, le camicie le scelgo sempre poco colorate,voglio che raccontino lavoro e precisione, nitidezza, pulizia. Non ho tatuaggi, non ho neanche capelli da tagliare come Genny Savastano o da farci treccine alla Bob Marley.

Ma gli occhiali sì. Mi sono sempre piaciuti. Raccontano qualcosa, quando non sono posticci. Gli occhiali tondi di John Lennon, quelli rettangolari e bianchi di Lina Wertmuller, quelli neri di Woody Allen – ecco, per due terzi della mia vita ho avuto quelli. Gli occhiali Ray-ban di Antonello Venditti, con il buco nel mezzo “per metterci la sigaretta”, come mi ha detto lui. Lo facevano i piloti americani nella seconda guerra mondiale. E gli occhiali di Elton John, e quelli di Mughini, follie cubiste colorate.

Io volevo occhiali per tornare all’infanzia, quando nessuno lo sa, tranne me. E quegli occhiali erano i miei occhiali rosa. Sono occhiali da poco, lo so. Ma mi piaceva quel loro colore così inusuale, forse inadatto a me. Quel colore che per me sa di fiori, di lavanda – sì, lo so, la lavanda è viola, ma va bene lo stesso – di giochi di bambini, di gentilezza, di allegria. Mi piacevano molto, i miei occhiali rosa. Poi per sbaglio ad un festival, mentre stavo presentando un attore sul palco, qualcuno ci ha camminato sopra.

Ho aspettato due mesi, e solo ieri gli occhiali rosa sono rinati. Ho portato una montatura identica in un negozio di ottica di Venezia., e in due secondi i miei occhiali sono risorti. E quindi volevo dire grazie a questo negozio. Ma è successo qualche cosa di più.

Il negozio ha un nome semplice: Ottica Manuela. È in una stradina vicino a San Marco, si chiama Salizzada san Samuele, l’ho trovata con Google maps inoltrandomi fra calli e ponticelli. Una stradina dove il clamore dei turisti è quasi azzerato: San Marco, Rialto con i suoi negozi sono lì, a due passi, ma sono lontani anni luce. Ma il negozio è una sorpresa. Potrebbe essere a Londra, o a Parigi, o a New York. Gli occhiali sono esposti come se fossero piccole opere d’arte. E lo sono.

La ragazza mi consegna i miei occhiali nuovi. La guardo: è alta, ha capelli chiari, luminosi. E, me ne accorgo adesso, un paio di occhiali bellissimi. Lenti tonde, ma con un’onda nera che li attraversa, come due sopracciglia o come un’onda del mare. Laura mi fa vedere altre paia di occhiali. Alcuni sono tondi, grandi come le montature che vediamo in certi dipinti medievali: ma leggerissimi. E nella parte frontale hanno dei numeri, piccoli numeri bianchi che sembrano cadere giù, disordinatamente. La razionalità che scivola giù, il piacere estetico che si afferma come unica ragione.

Comincio a capire che è qualcosa di più di un negozio, questo. Laura mi mostra un altro paio di occhiali. Anzi, due paia. Sono occhiali asimmetrici, una lente è rotonda e l’altra più squadrata: e le due paia di occhiali sono speculari, come se un paio fosse l’altro visto allo specchio. Occhiali neri, vistosi, grandi. Mi immagino una coppia, disinvolti, eleganti, che si riconoscono complici con quegli occhiali, uguali e diversi. Vedo altri occhiali, si chiamano Gamine, credo: linee che si incrociano, un tondo e un trapezio, degli angoli acuti e la perfezione del cerchio. Un po’ come l’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci. Quello che sta in piedi, dentro un cerchio e dentro un rettangolo allo stesso tempo.

Laura mi mostra un piccolo cortile, dietro il negozio. È un angolo di verde e di silenzio. C’è un tavolino di legno, ci sono delle piante. Il frastuono di Venezia sembra trattenere il respiro. I piccioni, i turisti, piazza San Marco, le gondole, le foto, i caffè, i vaporetti che arrivano. Tutto sembra lontano. Un piccolo spazio di incanto, un momento di grazia. E tutto questo lo devo a un caso: sono passato da questo negozio, perché qualcuno due mesi fa aveva camminato sopra i miei occhiali. E perché un mio caro amico di Firenze, Davide, mi ha detto che a Venezia c’era un negozio di ottica che lui conosceva. Davvero, a volte non le sai mai indovinare, le strade del caso.

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