Halloween? No, in Sardegna si chiama ‘Su mortu mortu’

di Giovanna Mulas

‘Su mortu mortu’ lo chiamano a Nuoro, la mia Nuoro.

Le vecchie della zona, acciambellate in scialli troppo leggeri e scuri, erano gli stessi fantasmi di cui cantavano: sapevamo che durante la notte, nella sua ora più buia, i morti sarebbero ritornati in terra per danzare in mezzo a noi, e tutti bellissimi: potevi vederli saltare, pavoneggiarsi e fare salamelecchi, mangiare fave secche.

Potevi ascoltarli ridere dinanzi alle chiese campestri, le sconsacrate, o attorno ai nuraghi, uniche sentinelle assieme ai pastori di questa terra amata e mia. Volteggiavano in cerchio, e c’era tuo nonno e c’era mia madre che c’invitavano a danzare; e mai dovevi unirti al loro ballo: ti avrebbero stordito, acchiappato, fatto entrare nel circolo e, dopo, non ne saresti più uscito; destinato a danzare fino alla fine dei tuoi giorni e anche dopo.

Così si raccontava che fosse finita la figlia del farmacista Loi, scomparsa una notte e mai più ritornata, avvolta da un nugolo di falene gialle.

Il vento, di questo periodo, soffia testardo, impunito: bussa alle porte col latrare dei cani e il gelo fa già gennaio nonostante l’isola; la pioggia sferza.

Allora cominciava a prepararci per quanto sarebbe stato, e venuto… in verità non rammento un primo di novembre in cui non venivamo infagottati, noi bambini, come alberi di Natale e la stella in testa; protetti, forse nascosti al resto del mondo che arginava il mare, tentando di fermarlo come si fa con l’invasore.

C’imbacuccavano in sciarpe, guanti e cappelli di lana grezza; un poco come appariamo noi sardi di fronte agli altri: accoglienti, ma sulle nostre…comunque chiusi in un unico spazio, il nostro e soltanto nostro, quello che pare curarci dalla realtà. Anime incatenate a loro stesse, o corvi che non hanno mai imparato a volare.

Nell’isola la vita è altro: un utero altro, protetto da Janas e Matzamurreddu, fiero della sua verginità, patrigno, avido coi figli.

Mondo di una sola stagione, fatto di canti di gallo e campana di chiesa, pane caldo di forno se annata è buona. Di madri, come le nonne, a bisbigliare preghiere e Santa Nastasia nàschida in mesu de campos: Deus nos salvet de tronos e de lampos; solo il vibrare della bocca percepisci.

Ricordo un fiume, in quel paese dove ogni voce volava prima che gl’interessati la lasciassero volare, laddove prima che realtà diventasse era già parola.

Il corso d’acqua si divincolava tra campi coltivati a pomodoro, vigne e patate, oltre un muro innalzato a secco, grezzo, ricamato da sforbiciate di terra, tre o quattro, non porto memoria del numero.

Sì vedo il limone, e il giovane melograno, la menta, i canti di una madre, i passeri coraggiosi in mezzo al noce spoglio.

Nonna raccontava di una giovane che, appena sedicenne, era venuta dal mare: nona figlia di nove figlie femmine, tutte nate di luna piena. Aveva tatuaggi sul mento e nelle guance, camminava circondata da un nugolo di farfalle colorate, unica sopravvissuta alla grande pestilenza. Era bella, di bellezza fiera e aspra, come la mia isola. I seni e i fianchi robusti, pelle olivastra, occhi di aquila ardente e labbra tumide, i riccioli scuri, selvatici.

Vero è che in comune con l’isola di Malta, le Baleari o la Corsica, la Sardegna, terra geologicamente più vecchia d’Italia, fu una delle ultime a ricevere l’uomo. E un giorno, quelli che sarebbero divenuti i suoi popoli, arrivarono dal mare: forse avventurieri dall’Africa caduti qui per caso a mò di Dei in templi nuovi,
forse per scelta, chi lo sa.

In questa isola aspra di rocce e di venti, dove fumavano vulcani.

Le rane, invece…in estate e dopo la pioggia cantavano più forte, quando anche il mirto odorava, il lentisco si vestiva di quel verde brillante che attendeva, ancora, un nuovo Natale.

E innoghe bos lu naro e innoghe mi nde nego. E qui ve lo dico, e qui ve lo nego.

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