Venivo dalla scuola media del piccolo paese dove sono nato e vivevo e i miei si aspettavano molto da me, forse quei sogni che avevano e che la guerra gli aveva negato.
Ricordo i giorni in cui volevano che scegliessi il mio futuro: avevano scelto tra me e mio fratello: inutile fu insistere che anche lui avrebbe dovuto studiare, ma mi risposero che avevano dovuto scegliere perché non potevano permettersi due figli avanti negli studi.
Non mi aiutò, col senno di poi, il giudizio finale che rappresentava quel che ero allora: un misterioso bocciolo indefinito che non sapevo neppur io spiegare.
Allora avevo i capelli pettinati all’indietro ed ero sotto il metro e settanta, giocavo a calcio con gli amici, eravamo uguali senza distinguo né se.
Poi un giorno furono scaricati dei mucchi di terra nella promessa di un campo da calcio per noi che si ripeté ad ogni elezione negli anni.
Noi ci accontentavamo sempre di ogni cosa in più che modificava il nostro prato, e riuscivamo ad inventarci un gioco diverso in attendesa del giorno che avremmo finalmente avuto il nostro campo agognato.
Così iniziammo a fare il ciclo cross con le nostre bici impennando a ogni salto. Ma in un giorno maleducato mi feci prestare la bici di un caro amico. avea il manubrio troppo stretto per quei salti, ma la presi lo stesso, lei s’impennò, ed io caddi riverso sul fianco. Il manubrio mi colpì con violenza sul lato sinistro dell’addome.
Immediatamente mi mancò il fiato, dicendo a tutti quelli che mi attorniavano preoccupati: “Non è niente, lasciatemi riprendere e passerà tutto”. Ma qualcuno chiamò mia madre ed altri accorsero. I miei non avevano l’auto, ma una nostra vicina aveva una fiat ‘600: mi caricarono per portarmi all’ospedale vicino.
Di quel viaggio ricordo solo la strada interrotta, poi la manovra per imboccare una deviazione e poi … il buio mi prese.
Tempo dopo (non so’ ancora adesso quanto), quando aprii gli occhi, vidi una bara scura con quattro lumini elettrici ai lati, rischiarare la penombra della stanza isolata che mi avevano riservato.
Ricordo che mossi gli occhi e vidi mia madre con gli occhi tumidi che mi guardava e anche che le prima parole che le dissi furono “Cos’è quella cosa da lì”. Mi disse “E’ Santa Rita”. Le risposi “Togli subito quella roba da lì!”. Non potevo alzarmi ancora, ma mi fu detto che il chirurgo si preparò per fare quel suo primo intervento di asportazione della milza.
La mia era spappolata ma l’intervento andò bene. Ci furono poi molti donatori di quel mio sangue particolare che ne fecero dono.
Venne poi il giorno in cui mi dimisero, ingessato dalla vita alle spalle con la sola mano destra che fuoriusciva.
Ero cresciuto in altezza al metro e ottanta, pesavo trentotto chili, avevo i capelli lunghi ed avevo iniziato a gustare vino. Mio padre che conosceva i donatori disse che l’ultima passione l’avevo ereditata dal loro sangue.
Sorrisi, ma ero cambiato completamente. Cosa che mia madre mi ha rinfacciato per tutta la sua vita. Avevano poi realizzato in poco tempo il campo da football che ancor oggi esiste, dove nessuno gioca più.
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