“All’insegna del Buon Corsiero” di Silvio D’arzo gustoso romanzo neosettecentesco, ricco di magie, turbamenti e tristezze giovanili è di una compiutezza sorprendente se si pensa che a scriverlo è stato un diciottenne.
Un giovanile capolavoro gremito di personaggi sempre in movimento dove tutto inizia in una locanda e la vita scorre tra carrozze, osti, imbalsamatori, ammaestratori di scimmie, tricorni, nobili e servitori.
Ma, all’improvviso, scende, sugli uomini e sulle cose, un silenzio “d’altri mondi”, e appare il Funambolo. Un misterioso equilibrista pronto ad esibirsi su un “filo, teso da gronda a gronda sopra gli stalli i negozi le berline, ed alto come i pensieri o i sogni della gente”.
Un’angosciante figura vestita di viola quella del Funambolo che cade e rinasce, soccorre e impaurisce. Creatura, sottilmente malefica, accompagnata da “un senso così fondo, così vasto, ed a tratti perfino un poco amaro, d’inquietudine”, che al suo passaggio la vita si arresta e trattiene confusa il respiro.
Vanni Capoccia
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