Il carnevale di Venezia (Le quattro stagioni)

DI FLORA BARIN

Il telefono squillò. Era Caterina. “Andiamo al carnevale di Venezia? Possiamo utilizzare dei costumi molto belli. Ci divertiremo mascherate!” “Scordalo. Io mi sento in imbarazzo. Mi vergogno. Andare a Venezia dove lavoro tutti i giorni, agghindata in maschera?

No, no… te lo puoi dimenticare, Caterina. Sono una persona seria, io. Se incontro dei colleghi di lavoro, che figura ci faccio?! Si faranno l’idea che sono una persona leggera, superficiale…non posso farlo!”

“E dai, buttati, lasciati un po’ andare, liberati dalle paure che ti attanagliano, non fai nulla di male. Si tratta solo di tirar fuori la tua parte giocosa. Il tuo lato libero e genuino, quello che ti permette ancora di vivere momenti spensierati e felici”.

“Ma quello è un lato di me bambina. Ora sono adulta, responsabile e rispettabile.”
Caterina, insistendo su questi argomenti, riuscì a coinvolgermi. Lei non si creava di questi problemi.

Riusciva ad immedesimarsi sempre nella situazione che stava vivendo. E se a volte qualcuno non capiva quella sua naturale spontaneità, valutandola ad una persona un po’ “così”, se ne infischiava.

Non se ne preoccupava minimamente.
Amiche fin dall’infanzia, era naturale che ci andassimo assieme al carnevale ma io ero riluttante, non capivo bene il significato di questa festa.

Qualcuno le aveva messo a disposizione quattro bellissimi costumi: rappresentavano le quattro stagioni.
Assieme saremmo state un colpo d’occhio. Così diceva.

Venezia nel periodo del carnevale si trasforma, diventa un teatro all’aperto.
Rivive la commedia dell’arte, che ebbe il suo culmine nel 1700. Suoni, musiche, canti, balli, recite all’aperto e nei saloni dei palazzi. Esibizioni di ogni tipo.
C’è gente che va, gente che viene, un fermento di vita, di vivacità.

Lungo i canali succede di sentire i gondolieri che incrociandosi, vogando sulle gondole, si chiamano a gran voce: “Ehi Alvise, ti vien a bere un’ombreta e a magnar un cicheto?” “Sì, va ben Piero….spetta che scarico i….foresti!”

I colombi, sempre presenti, si aggiungono all’animazione.
L’aria profuma dei dolci tipici del carnevale veneziano. Devono usare un particolare tipo di vaniglia a Venezia, poiché aleggia dovunque un aroma irresistibile. Non si può tornare a casa senza averli prima assaggiati.

C’è anche l’aroma del caffè, che si spande nell’aria. A Venezia esistono ancora caffetterie con la tostatura dei chicchi fatta di fresco, direttamente all’interno del locale.

Poi ci sono le cicheterie e i bacari che propongono antipastini ed altro (i cicheti, appunto) sempre accompagnati dall’ombreta (un bicchiere di vino). Luoghi, questi, affollati nel periodo di carnevale.

Come dicevo, gente che va, gente che viene, una vera passerella che diventa un po’ impegnativo affrontare lungo gli imbuti stretti delle calli.

L’atmosfera, pur essendo allegra e rumorosa, ha un che di compassato ed antico mancando il rumore e la presenza delle auto.
Scorre, alzando gli occhi, la lunga storia della Repubblica Serenissima.

Popoli di naviganti e conquistatori che hanno mescolato lo stile bizantino a quello veneto creando una suggestione così forte che ancora oggi emoziona.
A Venezia, soprattutto in certi periodi dell’anno, compreso carnevale, converge il mondo! C’è gente di tutte le razze.

Merito dell’insistenza della mia amica Caterina, parecchi anni fa partecipai al carnevale di Venezia. Il gruppetto di quattro amiche, rappresentava le stagioni.
I costumi, di gran classe, furono sorteggiati tra noi ed a me capitò l’autunno. Bellissimo! Lungo fino ai piedi di un color giallo ocra.

Il corpetto era rivestito con grappoli d’uva gialli, più chiari del tessuto con spruzzatine color ruggine. Qualche pampino verde salvia li arricchiva.

Dal corpetto in giù c’erano foglie sparse che andavano dal verde, all’arancio, al rosso scuro per finire col marrone. Una coroncina cerchiava la testa. Il tutto era fatto con le luminose perline veneziane. Una vera opera di ricamo artistico.

Partimmo dalla stazione Santa Lucia a piedi e percorremmo tutta la Strada Nova. Ad ogni campo, sosta. Si procedeva con aria importante e…di sufficienza, distribuendo contenuti sorrisi agli obiettivi delle macchine fotografiche che ci immortalavano, caricate dall’interesse che suscitavamo.

Mi stavo sciogliendo! I flash scattavano ininterrottamente come fossimo delle grandi star. Avevamo voglia di ridere. L’importante era non guardarci negli occhi altrimenti saremmo scoppiate.

A mano a mano che entravo in questa dimensione mi passavano le remore, i condizionamenti, i timori a cui ero abituata e mi lasciavo andare: la festa era mia e la vivevo in pieno.
Esprimevo lati di me che quotidianamente dovevo reprimere.

Buttavo le convenzioni per essere completamente me stessa con tutta la voglia di ridere, scherzare e abbigliarmi. Salutai, in un campiello, una maschera che incrociavo, la guardai sorridendo, mi rispose con un luminoso sorriso prendendomi una mano.

Ballammo dei valzer al ritmo che si sentiva nell’aria. Volteggiammo stupiti noi stessi. Il cuore mi batteva forte. Avevo accettato da un passante, seppure una maschera come me, di ballare libera in piazza, per di più in costume. Mi sentivo leggera come una piuma.

Arrivammo prima a Rialto e poi in Piazza San Marco: il salotto di Venezia.
Nella piazza c’era tanta gente. Si respirava allegria. La festa continuava. Ballammo, sempre tenendo il gruppo unito fino ad essere esauste.

Poi, un po’ infreddolite, ci sedemmo al Florian, antico caffè veneziano. Sostammo bevendo vin broulè e mangiando i crostoli e le tipiche frittelle veneziane, fatte con il lievito di birra.
Riflettei, seduta comoda e guardando fuori dalla vetrata, sul senso di questa festa.

È così l’uomo, pensai. Le feste ed i momenti di divertimento servono a liberarsi dal ruolo che ogni giorno impersoniamo e far uscire la propria espressività, creatività e fantasia.
Buttare la maschera, essere quello che siamo nel più profondo.

Alcuni colpetti sulla spalla mi scossero dai pensieri in cui mi ero completamente assorta, Caterina mi diceva, sorridendomi, che era tempo di ritornare.

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