Covid19 e le sue varianti: più aggressive, più veloci. Ne usciremo?

di Maria Parente

Il Sars-CoV-2 sin dal suo debutto sul pianeta Terra ha paralizzato non solo la vita di ogni singolo essere vivente, è riuscito ad imporsi e monopolizzare il mainstream mondiale, suscitare sentimenti contrastanti tra perplessità e timori, rivoluzionare l’esistenza umana e stravolgere la quotidianità di ciascuno: un evento planetario impensabile che tutt’ora sembra non voler demordere. Le mutazioni del virus , poi, si susseguono come un rinnovarsi nel ruolo e nelle intenzioni destabilizzando ancora più del dovuto la nostra serenità. Come oramai noto, il Sars-CoV-2 è un virus a Rna formato da circa 30 mila basi (nucleotidi): ogni nuova copia può presentare mutazioni che si determinano in modo casuale. Se la nuova mutazione presenta un vantaggio competitivo sui ceppi già in circolazione, questa può diventare dominante. Ad oggi si registrano diverse varianti del coronavirus. Dal ceppo “madre” partito da Wuhan alla variante spagnola, alla mutazione inglese per terminare con la brasiliana, che sembrerebbe più letale. Con riferimento proprio a quest’ultima l’Istituto Nazionale delle Malattie infettive del Giappone ha detto che è ancora presto per capire quanto sia infettiva e quali siano le conseguenze sui vaccini. A proposito di quest’ultima variante, un’infermiera sarebbe stata reinfettata, suscitando il sospetto che questa mutazione impedisca lo sviluppo dell’immunità.

Circa sei mutazioni di cui siamo a conoscenza, ognuna sviluppata in Paesi differenti, difficilmente diagnosticabili nella mutazione specifica poiché i sintomi presentati dalle singole varianti del Covid19 corrispondono precisamente a quelli già noti propri del ceppo madre, nato a Wuhan. Chi contrae il virus può quindi avere febbre, tosse secca e stanchezza o anche dolori muscolari, gola infiammata, mal di testa, congiuntivite, diarrea, perdita di gusto e olfatto, eruzioni cutanee o scolorimento delle dita delle mani e dei piedi. In entrambi i casi i sintomi gravi sono difficoltà respiratorie e dispnea, dolore o pressione al petto e perdita di parola o di movimento.

Dai sintomi e dal tampone non si può riconoscere se è Covid “originale” o la nuova variante inglese. “Il test molecolare si basa sul riconoscimento del Rna del virus. Quindi una singola mutazione può cambiare l’esito del test. Per questo bisogna aggiornarli continuamente in base alle mutazioni individuate”, afferma Federico Giorgi, genetista all’Università di Bologna e co-autore di uno studio sulla mutazione del Sars-Cov-2. Un aggiornamento effettuato da tutte le nazioni, anche dall’Italia. Il problema, però, spiega Giorgi, “è che se aggiorniamo i test con le sequenze rilevate in altre parti del mondo, ma non sappiamo quali sono quelle prevalenti in Italia, non rileviamo più niente. Non a caso, la mutazione è stata rilevata proprio nel Regno Unito, che ha sequenziato più di tutti”.

Più letali e aggressivi o semplicemente più veloci nella diffusione e nel caso della variante brasiliana, si sottolinea che la “mutazione potrebbe impedire lo sviluppo dell’immunità”, dal momento che “è ancora presto per capire quanto sia infettiva e quali siano le conseguenze sui vaccini”. Urge chiarezza ma soprattutto una cauta riflessione: perché, mi chiedo, dare lustro ad ogni variante per cui, ad esempio in Italia, non ci sono casi o così pochi tali da non aver ragione di innovare ogni volta una nuova emergenza? I sintomi, come riportato, sono esattamente gli stessi per cui diventa complicata la diagnostica di una mutazione differente, per non parlare delle cure o dei vaccini: le prime non ancora disponibili, i secondi non verificati in efficacia per ogni diversa mutazione. Da questo punto di vista questa pandemia sembrerebbe quasi una condanna per l’umanità e che ogni via d’uscita si limiti solamente ad una boccata d’aria per poi far ritorno nel limbo del Coronavirus.

da lanotteonline.it

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