Il gioco e gli spettri

DI ANTONIO MARTONE

 

Ieri sera, viaggiando in una delle innumerevoli, desolate periferie post-industriali del nostro paese, mi è capitato di vedere alcuni eco-mostri particolarmente brutti.
Erano immensi palazzi interamente dedicati alle case da gioco e alle scommesse.

Siamo oggi alla fine della modernità: quella stessa fase storica iniziata cinque o sei secoli fa che aveva issato la bandiera dell’uguaglianza fra gli uomini. La stessa che cullava il sogno di un progetto da compiere e di una frontiera da raggiungere.

Il mito della frontiera si era consumato già al tempo del secondo dopoguerra, ma aveva trovato la sua ultima fine negli anni sessanta del secolo scorso: era nato allora un nuovo spirito storico ed un inedito senso antropologico dell’abitare la terra.
E così, nel nostro tempo, il simbolo dominante non è più la frontiera, bensì il labirinto.

Gli eco-mostri che ho visto ieri sera costituiscono la sopravvivenza fantasmatica del mito della frontiera in un tempo che ha consumato lo spazio e che prevede soltanto il presente.

Alla fine della modernità, non esistono più processi di inclusione (come quelli moderni) che non passino attraverso il denaro. Il denaro è l’ultima (non) frontiera possibile: esso rappresenta il ritorno dell’idea della meta (che era tipica della frontiera), in un tempo in cui lo spazio è finito e il tempo è compresso.
Le case da gioco, gli eco-mostri di ieri sera costituiscono lo spettro fantasmatico del progetto finalistico della modernità.

L’idea tipicamente moderna, secondo cui è l’uomo che fa la sua fortuna, è ora affidata alla desolata e disperata ricerca di un gettone vincente.

Se non si comprendono le ragioni nichilistiche collocate alla base del progetto moderno, non si potrà comprendere l’antropologia delirante posta alla radice di un contemporaneo abitato da ombre spettrali che vagano senza direzione nel labirinto che abbiamo costruito.

(Foto da web)

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