IL LOCKDOWN ED IL COLORE DELLA SOFFERENZA

DI ANNA LISA MINUTILLO

 

Il lockdown ci ha offesi? Ci ha privati della nostra libertà individuale? Ci ha insegnato a correre meno, ad avere e rispettare regole basilari dell’igiene un po’ dimenticate? Tutto può essere e ci può anche stare.
Non semplice abbandonare quello «stile» di una vita che non vivevamo come avremmo dovuto.
Assembrati sui mezzi di trasporto, uno addosso all’altro quando si sale sul treno, rinchiusi in sale d’aspetto in cui si aspetta solo di non perdere la pazienza per la lunga attesa e la velocità di un consulto svolto, quando va bene, senza quasi farti accomodare.

Mani che toccano superfici quasi mai dovutamente ripulite, interni maleodoranti e sporchi, briciole sui sedili in cui deponiamo oltre che i nostri corpi, la speranza della puntualità, in modo da poter giungere sul posto di lavoro in orario.
Strade che, dopo la movida, si ricoprono di bicchieri di plastica, cannucce e bottiglie di vetro abbandonate qua e là.
Centri commerciali in cui di rado ci si reca per fare la spesa, ma sempre più sovente per andare al cinema ospitato al loro interno, oppure per cenare in uno dei tanti ristoranti, pizzerie, ed affini che né occupano vaste aree.

In un centro commerciale trovi di tutto, dall’ufficio postale, all’agenzia di viaggio, dal centro estetico al dentista..
E noi, lì, come pecoroni confusi che non rispettano la fila, che giochiamo a fare il «più furbo», solo per guadagnare una posizione.
Insomma, sporchiamo, inquiniamo, facciamo rumore, non rispettiamo nulla e nessuno, e ci lamentiamo, ci sentiamo offesi da un virus che ci impedisce di vedere la sofferenza.
Che colore avrà la sofferenza?
Ma soprattutto: perché non lo andiamo a raccontare a chi di, per, con il codid-19, è morto ?
Quante persone sono state davvero male pur essendo raziocinanti, avvertendo chiaramente che da quell’ospedale, non sarebbero mai uscite.
Quante persone sono morte così, sole perché private del contatto con i propri cari.
Così, senza nessuno che teneva loro la mano, che potesse ascoltare quanto avevano ancora da dare.

Così, avvolti in un camicino striminzito, senza ricevere l’affetto di chi non avrebbero più visto.
Cremati perché considerati pericolosi anche dopo averci lasciati, senza poter dire:«non sono d’accordo con questa cosa che altri hanno deciso per me».
Senza un fiore, senza una preghiera, senza affetto, da soli.
A ripensarci, dovremmo essere grati per essere ancora qui, su questa terra, senza indicibili sofferenze, senza lamenti, senza rinunce così pesanti.
A pensarci bene, ciò che ci è stato chiesto è stato solo di restare il più possibile in casa, casa nostra non un ospedale senza vie di fuga.
A pensarci bene, piuttosto che sentirci offesi dal lockdown che ci ha salvato in qualche modo la vita, che ci ha preservati dal dolore, che ci ha insegnato a mettere al centro il rispetto per la vita, la nostra e quella altrui.
Invece no, siamo tornati a correre, a sporcare, a lamentarci e tutta quella solidarietà, fatta dalle nostre case, dai balconi, i canti, il sentirsi uniti, diventano solo dichiarazioni poco pensate e molto dannose.
Ve lo ricordate il colore del mare?, l’acqua ripulita dagli sversamenti nei fiumi?, gli incontri con animali mai visti nelle nostre città?

La morte, così come la vita, richiedono rispetto, non dobbiamo necessariamente poterle vedere, vivere in prima persona, ma possiamo benissimo immaginarle, sentirle sulla pelle creando empatia, mettendoci attenzione e cura perché stiamo parlando di esseri umani, ma non sarebbe differente se parlassimo di animali a cui abbiamo voluto bene diventando membri della nostra famiglia.
Molti continuano imperterriti a non rispettare semplici regole, altri seguono quelle che gli tornano più utili, altri ancora pensano che tutto questo sia frutto di un’invenzione.
Non sapremo mai la verità, quella vera, ma il colore della disperazione è visibile a tutti, soprattutto a chi guarda con gli occhi del cuore.
La nostra casa è un luogo sicuro, modesto magari ma riempito di ricordi, oggetti a noi cari, profumi che la rendono unica.
È chiaro che non siamo abituati a restare fisicamente distanziati dalle persone, più difficile ancora è restarlo da chi amiamo.

Forse più che offesi dal lockdown dovremmo esserlo per aver compreso quanto avremmo potuto fare e non abbiamo mai fatto.
Offende la morte solitaria, offende non avere conforto, offende che esistano ancora donne e bambini maltrattati, offende non avere un lavoro, offende chi predica bene e razzola male.
Offende chi ha le possibilità e se ne sente privato, offende parlare a sproposito, offende che non si riesca a vedere ciò che non diventerà mai invisibile.
Offende che a regalare sgradevoli sensazioni sia chi sostiene di vivere per quello.
Pochi accorgimenti non costano nulla, rispetto a ciò che potremmo perdere. Pensiamoci

Anna Lisa Minutillo
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Pubblicato da Anna Lisa Minutillo

Blogger da oltre nove anni. Appassionata di scrittura e fotografia. Ama trattare temi in cui mette al centro le tematiche sociali con uno sguardo maggiore verso l'universo femminile. Ha studiato psicologia ed ancora la studia, in quanto la ritiene un lungo viaggio che non ha fine.