Il monte Bianco in Via Stelvio

DI ORNELLA SUCCO

Quando avevo pressappoco quattro anni i miei genitori traslocarono in un alloggio al quarto piano di uno stabile di via Monginevro.

In questa nuova casa il balcone del soggiorno si affacciava su di un cortile oltre il quale si snodava la via Stelvio, che a quei tempi non era neppure asfaltata.

Da quel balcone, come da un punto di osservazione privilegiato, potevo assistere al passaggio degli operai che lavoravano nello stabilimento Pianelli e Traversa o in altre piccole “boite” che popolavano il rione, controllare i camion carichi di tronchi di legno che si dirigevano alla vicina segheria e spiare, in lontananza, una piccola palazzina dove a sera si illuminavano le vetrine dell’unico negozio della strada: una latteria.

Ben presto scoprii che nella scala accanto, c’erano altri tre bambini della mia stessa età: Enzo, Attilia e Maurizio e, nell’estate che precedette il nostro primo anno di scuola elementare, ebbi il permesso di andare a giocare con loro sul marciapiede della via Stelvio, dove le nostre mamme, affacciandosi dal balcone del soggiorno, potevano “controllarci a vista”.

Giocavamo alla “settimana”, a “guardie e ladri”, a “Mondo”, a “rialzo”, ma il nostro gioco preferito era “scalare il Monte Bianco”.

Già, perché in via Stelvio c’era il nostro “Monte Bianco” privato, un numero imponente di lastre di marmo chiarissimo, quasi candido, che un vicino laboratorio teneva addossate al muro esterno del nostro cortile.

Erano lastre di tutte le altezze e gli spessori immaginabili e noi le scalavamo con assoluta noncuranza, servendocene per salire sul tetto piano di un vicino garage dove nascondevamo i nostri tesori: le pietre lucide per giocare alla settimana, i pezzi di gesso o di mattone per disegnare sul marciapiede, oggetti curiosi trovati per strada …

Il laboratorio per la lavorazione del marmo, il “marmorino” come lo chiamavamo noi, apparteneva ai signori Perrone e Rubi, due persone molto diverse tra loro ma accomunate da una singolare forma di nevrosi: dare in escandescenze e disperarsi ogni volta che scoprivano uno di noi bambini arrampicato in cima a quelle lastre.

I poveretti erano ovviamente ossessionati dall’idea che le pesanti lastre di marmo potessero improvvisamente crollare e rovesciarsi su di noi, tuttavia la loro paura era ai nostri occhi immotivata: eravamo piccoli e leggeri, non avevamo la forza nemmeno per spingere contro il muro la più sottile di quelle lastre, figuriamoci se saremmo mai riusciti a farle crollare …!

Così, resi ancora più baldanzosi dal loro divieto, cercavamo di arrampicarci il più in alto possibile e giocavamo persino a “fare gli alpinisti”.

Un giorno, però, accadde qualcosa d’imprevisto: dapprima arrivarono delle macchine dotate di grandi rulli per pestare il fondo stradale, poi vennero i camion con la ghiaia e infine fu la volta del camion con la caldaia per fondere il bitume, impastare l’asfalto e stenderlo sul fondo stradale …

Da un giorno all’altro ci ritrovammo espropriati del nostro territorio: via Stelvio era stata asfaltata e ora veniva percorsa da numerose automobili, che viaggiavano spesso a forte velocità.

Le mamme cominciavano ad impensierirsi quando scendevamo a giocare in strada, volevano poterci sempre “vedere” e questo comportava il divieto ferreo di allontanarci dall’inferriata che costeggiava il cortile, infine il “marmorino” reputò più prudente trasportare le grandi lastre di marmo all’interno del proprio magazzino e così, malinconicamente, assistemmo dai balconi allo smantellamento delle nostre “montagne”.

Il Monte Bianco se ne andò da via Stelvio e della sua presenza in quella via è rimasto soltanto il ricordo nel cuore di noi, bambini degli anni ’60, che avemmo la fortuna di poterlo scalare e di piantare, sulla sua cima, una bandierina di carta scolorita dal sole.

Immagine tratta dal web

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