Il paese in cui vivere

DI GIOVANNI BOGANI

 

Il paese in cui vivere

Entrò in casa quella ragazza, con gli occhi come acquamarina, con il volto che già conoscevi, ma con un altro nome. Tu, frastornata, non capivi.

Poi ti salutai, prendemmo un treno e andammo in Umbria, Perugia, forse Assisi. Scoprimmo di non conoscerci. Scoprii che forse amava ancora un ragazzo turco, gentile e intelligente, che poi avrei conosciuto, nella Città della Nebbia. E avrei conosciuto anche ragazzi palestinesi, libanesi, siriani.

Ti affascinavano, Nicole, quelli che venivano dal Sud del mondo. E io venivo da un Sud molto meno esotico, meno dannato, meno connesso con le correnti oscure della Storia e del desiderio.

Iniziasti presto a perdere interesse per me. La ragazza che mi aveva scritto la frase di Roberto Vecchioni, tua sorella, invece mi odiò per cinque anni. Giustamente.

Poi, d’improvviso, tornò ad amarmi. Ma non avevamo più vent’anni, o così a me sembrava.

Non sono più riuscito a vedere in lei il mio destino. Non sono più riuscito a vedere Dio, o a credere di vederlo, in fondo ai suoi occhi. Non sono più riuscito a credere che fosse lei il paese in cui vivere. Non sono riuscito a credere che fosse lei la mia acqua, il mio diamante.

A un certo punto, non ho avuto più la forza di prendere quel treno.

Poi, mamma, hai visto passare altre viaggiatrici, con cui ho fatto un pezzetto di cammino, oppure una strada che sembrava infinita. A tutte hai offerto il caffè, a nessuna hai fatto domande: almeno, non me ne sono accorto.

Ne hai conosciute di sagge e di incoscienti, di affezionate e di sfuggenti. Non hai mai saputo, forse non hai neppure intuito, quali di loro mi hanno fatto l’anima a brandelli. Quali sono volate via d’improvviso.

Ho cercato di non farti mai vedere che cosa mi succedeva. Ho cercato sempre di non mostrarti quando stavo annegando, di non farti vedere quando la mia vita finiva chiusa in una stanza. Non ti ho mai chiesto niente, non mi hai mai chiesto niente.

Ho cercato di fare da me, e non sono stato bravo. Qualche volta, ti ricordi?, siamo andati con la mia macchina su qualche collina fuori città a prendere qualche aperitivo, con la ragazza che in quel momento credevo avrei amato per sempre.

Come sempre, ti sedevi con fatica nell’auto, e ad ogni curva mi chiedevi quante ce n’erano ancora, prima di arrivare. Trovavamo un bar, e volevi sempre offrire tu.

Prendi un attimo il telefono

Non mi hai mai chiesto troppo, non ti ho mai detto niente.

Chissà se tu ci fossi ancora, se tu fossi ancora in questo momento, che è andato così lontano anche da me. Figurati come lo sentiresti lontano, estraneo.

O forse no, per quello che contava davvero il mondo, per te, era sempre uguale. Le strade vicino a casa non sono state rase al suolo, e tuo figlio è sempre di cattivo umore. Io avrei continuato a passare pochissimo tempo insieme a te.

Quel pomeriggio, ero da te quando squillò il telefonino. Dopo un po’ che ero lì a parlare, e tu seduta sul divano a non fare niente, mi venne un’idea.

“Mamma, prendi un attimo il telefono”.
“Perché?”.
“Prendilo, tranquilla”.

E tu: “Pronto?”
“Pronto, signora? Sono Carlo. Carlo Verdone! Come sta? Mi dice Giovanni che è sempre preoccupata… Di che cosa, esattamente?”.

E fu così che Carlo perse un po’ del suo tempo per mia mamma, e che tu ti sorprendesti, in un pomeriggio qualunque di un inverno qualunque. Sapevi che avevo lavorato con lui per diversi anni, che lo sentivo ogni tanto, anzi abbastanza spesso.

Lo avevi visto in televisione, forse un film intero no, i film tu non li vedevi. Ma conoscevi benissimo la sua faccia, e un po’ anche la sua voce.

Non fosti timida: parlare al telefono era stato il tuo lavoro, alle Assicurazioni d’Italia, per tutta la vita. E non ti scomponesti più di tanto. Se ti avesse vista, con la vestaglia e le ciabatte, allora sì che ti saresti sentita in imbarazzo.

Ma al telefono eri tranquilla. Forse gli parlasti anche dei tuoi malesseri, dei mal di testa, o dell’ansia che ti dava quel figlio che non avevi ancora capito se lavorava, o se stava ancora giocando, e a che cosa.

Dopo un po’ non sapevi che cosa dire, e fra mille ringraziamenti dicesti “via, le passo il mi’ figliolo”, per toglierti la castagna bollente e ridarmi il telefono.

Carlo disse altre due o tre frasi di circostanza a me. E poi rimanemmo di nuovo io e te, e il nostro silenzio.

D’un tratto dicesti: “O beh?”.

“Che c’è, mamma?”
“O come mai m’hai passato Verdone? Che vergogna! Ma, io ‘un lo so davvero…”.

Ma in fondo, lo so, per un attimo, ti eri distratta un po’ da tutto.

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