IL «PASTICCIACCIO»DI GADDA, METAFORA DELLA SOCIETÀ ITALIANA

DI VANNI CAPOCCIA

 

Per la narrativa italiana il Novecento è secolo di grandi scrittrici e scrittori: Fausta Cialente, Anna Maria Ortese, Tomasi di Lampedusa, Elsa Morante, Pratolini, Silone, Silvio d’Arzo, Calvino, Volponi, Buzzati, Pasolini, Fenoglio, Natalia Ginzburg, Lalla Romano, Soldati, Flaiano de il “Tempo d’uccidere”, Savinio e tanti altri fino a Leonardo Sciascia.

Tra questi Gadda, il lombardo che con “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, sotto la spinta liberatoria della fine della guerra e della caduta del fascismo, ha scritto un capolavoro in romanesco, con il quale ha fatto in modo che la Capitale accanto alle poesie del Belli avesse anche il suo grande romanzo, vociante e barocco come le chiese, i palazzi, le strade di Roma.

Leggerlo è come andare in giro per vie, piazze e piazzette della Roma anni trenta con in mano una vecchia guida della città e sentire la lingua dei romani de Roma mischiarsi ai dialetti di chi come il molisano commissario “don Ciccio” Ingravallo, tanto integrato quanto estraneo alla capitale, confluiva allora a Roma da ogni parte d’Italia (ora accade da ogni parte del mondo).

In un romanzo di sfrenata creatività, ambientato nel periodo fascista nel quale la cronaca nera non aveva cittadinanza nei giornali Gadda si muove tra lingua, metafore, donne alle quali è negata la soddisfazione, una folla di personaggi dai classici nomi romani che gli hanno consentito di costruire il proprio “pasticciaccio” sociale e linguistico nel quale poliziotti, carabinieri, portiere, case, strade, mercati, suoni, dialetti si contaminano e mescolano nei “vortici della gran magnara”.

Leggendo si percepisce la presenza fisica di Gadda. È lì, davanti a chi legge, tra le pagine del romanzo. O al palazzo degli Ori abitato da “pescicani”, o in piazza Vittorio, o in altro luogo di Roma osserva e si muove tra gli interpreti e sembra decidere lì per lì cosa debbano dire e fare. Talmente forte era il bisogno di Gadda d’essere nella realtà descritta nel suo romanzo che come ha scritto Pietro Citati su Repubblica del 6 settembre 1996 “entrava nelle case, percorreva le strade, frequentava i mercati, come se questo fosse veramente il suo mondo”.

Ciò giustifica la scelta della lingua usata che perde ogni linearità passando con camaleontica duttilità da un dialetto all’altro, all’invenzione di vocaboli. E credo sia il motivo per il quale nell’edizione definitiva del romanzo Gadda, che da uomo di scienza sapeva essere l’incompiutezza ineliminabile da ogni ricerca, abbia scelto che il suo romanzo fosse un “giallo” senza soluzione. Nella narrazione gaddiana l’agnizione finale del colpevole sarebbe stata elemento perturbante della realtà che agli occhi dell’autore si presenta come un calderone. Uno “gnommero”, di tipi umani in una società perennemente incompiuta, perbenista, ipocrita e ottusa come quella italiana (Roma è metafora dell’Italia) che per quanto tentasse di nasconderli vedeva il suo caos, i suoi mali, i suoi difetti esaltati e non corretti dal totalitarismo fascista durante il quale è ambientato il “pasticciaccio de via Merulana”.

Vanni Capoccia

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