IL PD, I 5 STELLE E IL BOOMERANG DEL MES

DI STEFANO FASSINA

voto di domenica e lunedìscorsi può trasformare l’accordo emergenziale e improvvisato, raggiunto un anno fa in chiave anti-Salvini, tra Pd e M5S in una incisiva prospettiva “di fase” per la ricostruzione morale, economica e sociale dell’Italia.

Le responsabilità ricadono su entrambi i protagonisti del governo Conte II: M5S e Pd. Il Movimento 5 stelle deve riconoscere che il suo “momento populista” è superato: non funziona più la narrazione “basso contro alto”, “popolo contro casta”, “cittadini contro establishment”. Lo spazio politico, dopo le sollecitazioni del decennio alle nostre spalle, ha ripreso, come un tessuto memory, la forma naturale destra – sinistra per diversi ordini di ragioni.

Primo, perché il populismo della destra nazionalista si è auto-definito e affermato in quanto tale, con una fortissima connotazione ideologica e identitaria. Così, ha inevitabilmente spinto la percezione pubblica dell’altro da sé come “sinistra”, sopratutto dopo la traumatica rottura tra la Lega e i grillini e la fine del Governo Conte I.

Secondo, perché l’esperienza di governo, a livello nazionale e comunale, implica, anche a propria insaputa, la “promozione” a establishment: Palazzo Chigi, i vertici europei, le apparizioni alle assemblee padronali, i workshop Ambrosetti a Cernobbio, la scorta, le auto blu, l’attenzione mediatica anche nella dimensione privata fanno classe dirigente.

Terzo, perché quando si governa si deve scegliere tra interessi diversi e si è costretti a riconoscere che “il” popolo non esiste in quanto entità mitica e indifferenziata, intrinsecamente protesa al bene comune. Pertanto, “il” popolo non può essere rappresentato da un solo avvocato, ma necessita di tanti avvocati perché, nelle società moderne e democratiche, è in realtà un coacervo sociale attraversato da conflitti e contraddizioni e impone scelte tra interessi diversi: quando al governo della Repubblica approvi il Decreto Dignità a salvaguardia della fascia di popolo composta da lavoratori e lavoratrici precarie e sfruttate, entri in conflitto con la fascia di popolo degli imprenditori, anche piccoli, stressati dalla competizione al ribasso imposta dal mercato unico europeo.

Quando, da sindaca della Capitale, lisci il pelo al popolo romanista, oltre che ai grandi interessi finanziari e immobiliari della tua città, con il Sì al business park mascherato da stadio della A.S. Roma a Tor di Valle fai un frontale con il popolo ambientalista, giustamente contrario all’ennesima speculazione edilizia.

Insomma, nelle società complesse, il populismo, inteso inteso in senso tecnico a la Laclau e Mouffe, è intrinsecamente effimero, funziona all’opposizione, ma per costruzione, al governo, non può preservare il livello di consenso maturato prima (vedi anche la vicenda di Podemos e, sebbene geneticamente diversa, anche di Syriza e finanche La France Insoumise).

Il “tradimento” delle promesse elettorali da parte della “casta” non origina sempre e comunque dalla carenza di onestà o dal servilismo amorale ai “poteri forti”. Può discendere da rapporti di forza economici e mediatici squilibrati.

Infine, perché il Covid-19 ha accelerato, non determinato, il ri-orientamento dei sentimenti, prima ancora delle domande, delle periferie sempre più sofferenti: dalla rabbia iconoclasta, alla delusione, alla attesa di risposte efficaci a migliorare condizioni materiali di vita insostenibili.

In sintesi, esiste la crisi di identità denunciata ieri da Alessandro Di Battista e rilevata anche nelle analisi dei flussi dell’Istituto Cattaneo (in alcune regioni, al non voto sono finiti, domenica e lunedì, 50 dei 100 voti raccolti dal M5S nelle elezioni europee del 2019). Ma non deriva, in radice, da fattori soggettivi ed errori, pur presenti. È fisiologica. Ovviamente, la qualità della classe dirigente rileva, ma è fattore esplicativo di secondo ordine.

Nella fase in corso, M5S dovrebbe continuare a dedicarsi alla missione di soccorso alle fasce escluse e colpite dalla globalizzazione e dall’europeismo liberista. Ma dovrebbe farlo nel campo alternativo alla destra nazionalista, in alleanza con il Pd, scivolato nell’ultimo trentennio a rappresentare le fasce sociali progressiste delle Ztl: chiara collocazione e salda rappresentanza delle sue constituency.

Quindi, no al Mes, ma non per ragioni ideologiche, come se l’ideologia fosse estranea ai petulanti invocatori dei “soldi gratis” o del ricatto sul Servizio Sanitario Nazionale. Il Mes è un pessimo affare per l’Italia per robuste ragioni di merito più volte documentate anche qui.

Sarebbe sufficiente per archiviarlo constatare che nessuno dei 17 Stati europei richiedenti il Sure (il programma di sostegno al reddito per i disoccupati), quindi interessati, seppur meno di noi, a risorse finanziarie a costi inferiori a quelli di mercato, abbia previsto di accedere o fatto istanza di accesso al Mes sanitario.

Per finanziare il SSN deve intervenire la banca centrale, come avviene ovunque in uno scenario di economia di guerra, zavorrata da un debito superiore al 160% del Pil. Quindi, no al Mes in quanto riduce lo spazio negoziale del governo nella riscrittura, a Bruxelles, delle regole per la finanza pubblica, per il credito, per la moneta e per i mercati e consolida un’interpretazione del vincolo esterno avversa al lavoro subordinato e autonomo e alla micro e piccola impresa dipendente dalla domanda interna.

Certo, in politica esiste sempre un ventaglio di opzioni. Il M5S potrebbe insistere a voler stare in un terzo campo, né di destra, né di sinistra, come alle origini. Si condannerebbe, però, all’estinzione.

Per l’altro pilastro del governo, il Pd, il compito è altrettanto impegnativo, a giudicare dalle dichiarazioni dei suoi esponenti di punta nel post voto. Dovrebbe rifuggire dalla tentazione dell’autosufficienza, dell’autolesionistica vocazione maggioritaria. Dovrebbe avere consapevolezza dei suoi limiti strutturali a rappresentare le periferie culturali, economiche e sociali. Dovrebbe riconoscere le specificità elettorali dell’Emilia Romagna e della Toscana. Dovrebbe leggere bene i dati della vittoria in Puglia e Campania. Lí, non “ha vinto da solo”, ma con un articolato insieme di micro-poteri e relativo ceto politico territoriale, irriproducibile a scala nazionale. Lí, un M5S fuori partita è stato falciato, ma ha comunque raccolto il 10-11% dei consensi. Il vertice del Pd dovrebbe superare il complesso, ereditato dal PCI, da “figlio di un dio minore”, in perenne deficit di legittimazione politica e evitare di sottomettersi agli esami di “senso di responsabilità nazionale” richiesti, ancora una volta, dagli interessi più forti e dai loro giornali.

L’europeismo subalterno del Pd allarga la faglia nella sua capacità di rappresentanza oltre il recinto delle classi medie integrate nei flussi finanziari, economici e culturali globali e impedisce la coltivazione del campo comune con il M5S. Un’impuntatura del gruppo dirigente del Nazareno sul Mes per dimostrare a lor signori che “ha coraggio” e controlla l’agenda del governo Conte II sarebbe un boomerang, un atto in radicale contraddizione con l’investimento avviato, la saggia linea praticata finora, inclusa la difficile scelta per il Sì al referendum, e il lavoro politico di fase da compiere.

Qui l’articolo originale 

 

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