Il pranzo di Natale

di Massimo Paolo Rossi

Il pranzo di Natale era un rito antico nella vecchia casa paterna.
Come sempre, Il padre Antonio si era sistemato a capotavola e distribuiva le porzioni a tutti gli altri, a cominciare dalla moglie Albina, seduta alla sua destra. Vittorio sedeva alla sinistra, seguito da Maria, da Matteo, di fronte a Paolo e, di seguito, la zia Giacomina e la zia Alberta: le sorelle di Antonio.
In quell’occasione a tavola venivano fatte sedere anche le donne che svolgevano i lavori più pesanti in casa: Annuccia e Mariannina, che si alzavano quando si trattava di cambiare piatti e portate e di riempire le caraffe di vetro con l’acqua e col vino prodotto dalla vigna di famiglia.

Si pranzava, per una volta, nella grande sala da pranzo con una sola piccola finestra per dare la luce, e dove c’era il tavolo lungo con i terminali rotondi.
A Paolo piacevano due mensole con i ripiani in marmo sorretti da elementi in legno lavorati a torciglione: lo avevano incuriosito sin da bambino, per il loro essere solitarie. Erano appoggiate a una delle pareti lunghe, ai lati dell’antico e alto buffet, su cui si trovavano da tempo piatti e soprammobili che mai venivano mai spostati. Paolo si era sempre chiesto a cosa servissero.
Le portate iniziavano con una zuppa. Modalità assai strana ma che a Paolo piaceva: lo faceva sentire nel suo ambiente. Maria a stento riusciva non storcere la bocca e Vittorio a frenare la sua protesta.
Era una zuppa di lenticchie, ceci, fave secche, orzo e altri legumi. Maria e Vittorio non la ritenevano degna di un pranzo natalizio, piuttosto di una mangiata contadina, ma Antonio era inflessibile nella sua decisione di rispettare quella tradizione. Non amava ricchi antipasti, se non qualche fetta di salame prodotto in campagna, e nocciole delle sue piante: il resto della famiglia si adeguava con qualche mugugno a mala pena represso. Tranne Paolo e Matteo che amavano quella cucina povera, quasi con un senso di impertinente irriverenza nei confronti della cognata Maria che sembrava volesse far pesare una sua origine di elevata nobiltà.
La sua esclamazione: “Ottima, come sempre”, rivolta ad Albina, veniva così ad assumere un significato di ironica seppur celata provocazione.
Ma Matteo e Paolo pensavano onestamente che quel piatto era speciale e adatto all’occasione.
Poi, Antonio passava a fare le porzioni dell’agnello, quello che veniva cotto nel camino, infilato nello spiedo che un meccanismo a molla faceva girare, mentre Annuccia e Mariannina spennellavano la carne con un rametto di rosmarino intinto nell’olio.
Il pranzo finiva con un dolce, sempre lo stesso: la crostata di albicocche che, colte dalla pianta in settembre, erano state conservate in vasetti sotto spirito.
Un pranzo povero, in fondo, certo non in linea coi pranzi dei ricchi che, a Natale, facevano preparare piatti molto più sontuosi.
Dopo mangiato, Antonio offriva ai figli maschi uno o più bicchierini di grappa, quella che produceva lui stesso con l’antico alambicco di rame e vetro che conservava in cantina.
Mesceva il liquore con lentezza e, in quell’occasione, il suo viso assumeva un’espressione più seria, con la barba che dava un senso di ieraticità all’occasione.
Paolo guardava e ascoltava. Antiche sensazioni dell’infanzia e dell’adolescenza confusamente venivano a ingombrargli la mente. Forse dipendeva dalla grappa di cui aveva bevuto quattro o cinque bicchierini. Ogni tanto lanciava uno sguardo agli altri seduti intorno al tavolo: le donne erano sparite, restavano gli uomini che parlavano e ridevano, un’atmosfera alla quale non riusciva a partecipare.
Un’immagine sembrava voler prevalere su tutte le altre: lui bambino, o forse adolescente, accanto alla fonte in
piazza. Quella dal cui becco di ferro sgorgava l’acqua con cui le donne riempivano le conche. Se le mettevano sulla testa interponendo tra questa e quelle uno straccio avvoltolato a mo’ di ciambella. Non tutte, le più brave, o almeno quelle che tali volevano apparire – quasi a dimostrare alle altre chi fossero – appoggiavano le conche direttamente sui capelli. Camminavano così, con i pesanti recipienti in precario equilibrio, solo qualche volta aiutandosi con una mano per non far precipitare il tutto. Paolo si chiedeva se il peso e il metallo non provocassero dolore.
In quel momento di confusa convivialità, ebbe sete. Avrebbe bevuto volentieri un bicchiere di quell’acqua che aveva un sapore metallico, forse di rame. Era una sensazione che lo riportava indietro negli anni: si arrampicava su una sedia dalla seduta di paglia, immergeva il mestolo in una delle conche che stavano su un trespolo di ferro sagomato in cerchi robusti e che sorreggevano i recipienti cingendone il fondo. Beveva direttamente dal mestolo, e mai sapore era più buono e dissetante.
“Ancora un bicchierino di grappa!” L’atteggiamento del padre sembrava più affettuoso e accondiscendente del solito, malgrado le occhiate della madre che, passando alle loro spalle, disapprovava con lo sguardo l’improvvisa e anomala generosità. Paolo aveva sete d’acqua, ma non poteva sottrarsi all’invito: doveva pur fare la figura di uomo forte e ormai adulto, quale tutti pensavano fosse.
“Puoi bere, figliuolo, oggi è Natale!” La voce del padre era calma e profonda, sarebbe tornata burbera e avara di parole solo l’indomani.
Il giorno stava passando, le ombre della sera cominciavano a riempire la stanza e ormai solo la fiamma nel camino sembrava poter illuminare l’ambiente.
Vittorio e Maria si erano ritirati nella loro stanza, dove lei certamente avrebbe continuato a protestare, a dire che l’anno successivo avrebbero festeggiato a Civita, e chi sarebbe venuto avrebbe partecipato a un vero pranzo di Natale. Gli altri, gli assenti, avrebbero ancora pasteggiato a fagioli e verdure. Ma forse Vittorio già dormiva e non ascoltava più.
Paolo era seduto, quasi disteso, su una vecchia sedia impagliata, con le gambe allungate sotto il tavolo. Aveva chiuso gli occhi e lasciava andare i pensieri in libertà e disordine, in una sorta di dormiveglia. Vagavano le immagini dalle brune arature dell’autunno alla montagna i cui intricati camminamenti boscosi incombevano sulla valle. E poi, dal fiume che in primavera sarebbe fuggito nei rimandi argentati del sole, al sorriso timidamente mostrato e nascosto di Giovina che, ammiccando, avrebbe ancora svoltato in qualche piccola rua del paese, per sparire tra le vecchie case.
Poi il silenzio e la penombra avevano ammantato di quiete il respiro e gli sguardi.
Antonio spense il toscano, si alzò dalla sedia coi braccioli di legno e, senza parlare, si avviò verso la sua stanza e il suo letto.
Era il segno che anche Paolo poteva alzarsi e andar via: il controllo paterno era finito.

 

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