Il sentiero delle capre

DI FABIO BORLENGHI

 

 

Nel cuore dell’Appennino centrale c’è un sentiero montano che amo particolarmente perché mi riporta, ogni volta che lo percorro con scarponi e zaino in spalla, emozioni passate che puntuali si rigenerano nel presente.

Ogni primavera lo ritrovo sotto i miei passi, sempre uguale, mentre mi conduce, con non poca fatica, all’osservazione di un grande nido costruito dalle aquile su una piccola parete rocciosa all’uscita di una gola impervia.

E’ singolare come ci si possa legare sentimentalmente a un sentiero, eppure succede. Ancora in auto, percorrendo la valle che più a monte si trasformerà nella stretta gola selvaggia, la mia mente si connette con i luoghi magnifici descritti dallo scrittore romantico Ferdinand Gregorovius nei suoi viaggi in Italia nell’ottocento.

Parcheggiata l’auto nella piazzola vicino al torrente, osservo il cielo azzurro sopra il verde delle querce e aspetto qualche minuto nel caso la fortuna mi regalasse il volo dell’aquila con il suono dell’acqua sullo sfondo. I tempi stringono e bisogna sbrigarsi perché ci vuole più di un’ora di salita per arrivare al punto di osservazione.

Scarponi, zaino, binocolo e racchette e si comincia. Il primo tratto rasenta un ruscello fino a una cascatella che termina in uno scivolo di roccia levigata su cui l’acqua si riversa in una pozza a forma di catino scavato nella roccia. Qui la debole corrente forma un piccolo vortice che incanta l’occhio di chi lo osserva regalando riflessi verde smeraldo quando il flusso d’acqua è cospicuo, altrimenti è solo trasparenza.

Spendere qualche minuto per osservare il giro dell’acqua con qualche girino che scodinzola nella pozza è la prima delle tante preziosità del sentiero.
Ora si sale a zig zag fra sassi malfermi e foglie secche.

Terminata questa specie di scala a chiocciola naturale, indispensabile per aggirare la cascatella, si entra in quello che ho soprannominato il vallone dei pensieri. Succede che di questi tempi la mancanza di segnale telefonico conferisca a un luogo, soprattutto se ambiente naturale, un alone di singolarità negativa o positiva secondo i punti di vista.

Nel vallone dei pensieri il cellulare è muto e questa condizione favorisce il pensare libero e spontaneo perché nessuna riflessione sarà interrotta da alcuna chiamata. E’ un po’ quello che Fellini asseriva sul giusto modo di vedere un film comodamente seduti nella sala di un cinema senza interruzioni pubblicitarie.

Qui il tracciato del sentiero è appena accennato su un tappeto di foglie secche accumulate nel tempo sul letto di un torrente asciutto all’interno di un bosco. Ogni volta mi chiedo se in un tempo lontano nel torrente ci fosse l’acqua, poi scomparsa, oppure se solo lo scioglimento dei nevai di quota o i temporali siano periodicamente gli unici dispensatori di questo prezioso elemento naturale.

Eppure ogni tanto guardando le pozze secche scavate dall’acqua con dentro cumuli di foglie, sassi e rami secchi, mi fermo a immaginare qualche trota ferma controcorrente in attesa di qualche insetto da ghermire; chissà…

Continuo lungo il vallone, la pendenza non è granché, avendo intorno solo alberi, alcuni dei quali stesi a terra schiantati da qualche copiosa nevicata degli anni passati. Il cielo si vede solo fino ad aprile quando ancora la fogliazione arborea non è completa, poi è come camminare in un tunnel verde.

In fondo a questo tunnel naturale inizia la salita vera e propria e così, lasciato il fondo del torrente secco, s’imbocca, sulla destra, una ripida rampa che porterà a una sella che congiunge il vallone all’altra valle, stretta a mo’ di gola, dove le aquile hanno casa.

A metà salita, in un tornante della rampa, si apre la vista verso la parte alta del vallone e da qui si ammirano due bianche guglie rocciose dominanti lo spazio intorno. Sulla cima delle guglie ho visto più volte le aquile portare le prede agli aquilotti da poco involati.

Ripreso il cammino in salita, non passa molto tempo che la visione del cielo fra le fronde degli alberi anticipa l’avvicinarsi della sella, con grande sollievo per i muscoli delle gambe; ci siamo.
La sella è un posto magico, di transizione, una sorta di star-gate a metà fra due valli completamente diverse: una tutta silenzi, alberi, mancanza d’acqua, scarsa ventilazione e…tanti pensieri, l’altra rocciosa, impervia, ventilata, col rumore dell’acqua impetuosa proveniente dal fondo e il cielo sempre in vista.

E’ soprattutto qui che trovo le ‘fatte’ di capre, anche se non ne ho mai vista una.
L’ingresso alla gola è in discesa su roccia viva. Anni fa, lungo il sentiero, trovai un grosso masso rivoltato e subito pensai all’orso, la cui presenza in queste montagne è provata da diverso tempo. Ora il terreno sotto gli scarponi è più duro e, dopo una breve discesa, risalgo la gola scorgendo ogni tanto il vuoto a lato del sentiero.

Tanti anni fa, mentre camminavo lungo questo tratto, un’aquila mi apparve in volo ad ali chiuse mentre eseguiva il suo volo territoriale. Era il maschio di coppia a distanza ravvicinata e per un istante i suoi occhi agganciarono i miei. La seguii con lo sguardo per alcuni secondi e la vidi scomparire più a valle mentre continuava il suo volo ondulato.

Manca poco all’arrivo. Negli ultimi tempi impiego un’ora e un quarto a fare tutto il percorso, trent’anni fa quarantacinque minuti. Tutto passa, dicono in oriente, anche il tono dei muscoli.
L’ultimo tratto del sentiero porta a una piazzola scoperta che si affaccia sulla gola, a circa mille metri di quota, con il nido in vista nel versante opposto, distante quattrocento metri.

Qui mi fermo un attimo e mi abbasso più che posso. Le femmine d’aquila reale sono molto diffidenti quando nidificano e quattrocento metri sono niente per la loro vista. Dalla piazzola vedo il nido prima a occhio nudo poi col binocolo. Sembra tutto tranquillo. Mi rialzo e lentamente attraverso lo spazio scoperto cercando di non fare rumore.

M’infilo così negli ultimi venti metri di sentiero coperto dagli alberi e finalmente arrivo al punto di osservazione che non è altro che un metro quadrato di sentiero, in salita, dove mi accuccio velocemente e da dove, attraverso uno spazio fra i rami degli alberi, riesco a vedere il nido. Semisdraiato sul sentiero monto il cannocchiale sul vecchio e fedele cavalletto di campo. Sono emozionato.

Punto il cavalletto sul nido a quaranta ingrandimenti; si tratta di un ammasso di rami secchi, largo almeno due metri, appoggiato a un leccio emergente dalla piccola parete rocciosa. Il bordo è rialzato di recente con nuovi rami; buon segno. Il nido apparentemente sembra vuoto ma…l’esperienza mi dice che la femmina in cova, stesa completamente sulla lettiera del nido e coperta dal bordo del nido stesso, può rendersi quasi invisibile, eccetto la testa o una sua parte. Inoltre i colori dell’aquila, testa compresa, sono identici all’ambiente circostante e le termiche dell’aria che sale dalla gola distorcono le immagini al cannocchiale.

Passano secondi interminabili nei quali mi chiedo amleticamente “c’è o non c’è?” fino al momento in cui, poco sopra la linea superiore dei rami secchi, catturo il battito delle palpebre dell’aquila, immobile nel nido.
E’ in cova: missione compiuta!
Un sasso appuntito del sentiero mi tormenta la schiena quasi a ricordarmi che sono arrivato fin lì grazie a lui: il sentiero delle capre, che per anni non ho mai visto, come i tartari nel deserto di Buzzati.
Poi finalmente un giorno…eccole!

© ® foto di Fabio Borlenghi

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