Il sogno

DI GIOVANNI BOGANI

 

Non vi perdeste d’animo. Cercaste una casa che si potesse comprare per tredici milioni, tutto quello che avevate. Erano i primi anni ’70, uno stipendio forse era di trecentocinquantamila lire al mese.

Se fosse vero, sarebbe stata una bella somma. Quaranta stipendi. Bisognava mettere da parte per un bel po’ di tempo, per avere anche quei pochi milioni.

Cercaste una casa sulla riviera adriatica. E io così vidi Cesenatico, e Bellaria. Non me la ricordo, la casa che andaste a vedere. Mi ricordo, molto vagamente, un ristorante, l’aria fresca dell’estate e del mare vicino.

Ma la riviera adriatica era troppo lontana, per due che non avevano la macchina. E allora la casa la compraste a Viareggio. E non vicino al mare, non alla Città Giardino come la nonna. La compraste vicino alla stazione, vicino all’Aurelia, lontano dal mare.

Dove c’era tutto cemento, cemento e case basse, che sembrava un quartiere di periferia di Firenze, ma senza fiume, senza monumenti, senza i negozi che stavano vicino a casa della nonna, senza le chiese con le facciate di pietra o di marmo. Facciate di intonaco bianco, porte che si aprivano su corridoi lunghissimi e bui, intestini che portavano in chissà quali case.

La nostra aveva due stanze e un minuscolo giardino. Davanti al giardino, un muro. Un muro di quattro metri, giallo. E di là dal muro, un deposito di acque minerali. Spuntavano dalla cima del muro casse di acque, e di birre, di bibite di ogni tipo.

Con i rumori del vetro che sbatte contro il vetro, del vetro che sbatte contro la plastica, del vetro che sbatte contro il muro. Un brindisi continuo, di là dal muro. E le urla degli operai che guidavano i muletti, che caricavano e scaricavano casse.

Il giardino era un rettangolo di sabbia scura, che si faticava a chiamare terra. Le due stanze erano piccole. Ma creaste lì il vostro sogno. Anzi, lo creò papà. Compraste un mobile cucina che aveva all’interno due piastre elettriche, un minuscolo frigorifero, un minuscolo lavello, una minuscola cappa di aerazione.

Compraste un divano che diventava il vostro letto, e un altro divano che diventava il mio, con sotto un altro letto per gli ospiti. Il tavolo naturalmente si richiudeva, diventando minuscolo anche lui: e nel mobiletto all’interno c’erano dodici sedie di plastica, pieghevoli e color fumé. Sembrava una casa di astronauti.

C’era anche un finto mobiletto, da cui usciva un altro lettino. Così c’erano cinque posti letto: per chissà quali ospiti, che non avemmo mai. Ma avevamo un sogno. “Per fare un prato / bastano delle api e un sogno. Il sogno basterà / se le api sono poche”. Il sogno vi bastò.

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