Il volto di Narciso

DI ORNELLA SUCCO

Era il mese di settembre del 1970, ed avevo la fortuna di poter ospitare per alcune settimane la mia carissima amica Maria che, dopo aver condiviso con me i banchi della prima e della seconda media, si era dovuta trasferire con la famiglia a Fermo, nelle Marche, città d’origine di suo padre.

In previsione del suo arrivo, avevo preparato un dettagliato programma di visite di Torino, città nella quale Maria era nata ma che, negli anni in cui eravamo state compagne di classe in una scuola media di periferia, avevamo imparato a conoscere solo attraverso le brevi visite didattiche organizzate dalla nostra insegnante di lettere.

Per motivi di tempo, evidentemente, alcuni musei ed alcuni monumenti li avevamo conosciuti solo di nome, ad altri invece era stata dedicata una visita veloce che tuttavia aveva lasciato in me ed anche in lei molte curiosità irrisolte.

Un pomeriggio decidemmo di dedicarlo interamente a Palazzo Madama del quale avevamo studiato abbastanza bene la storia e che ci affascinava proprio perché racchiudeva in un solo luogo le diverse anime di questa città: le torri dell’antica porta romana, quelle medievali che completavano la fortificazione del castello degli Acaja e la facciata barocca ideata da Filippo Juvarra.

Sostammo in ogni sala del Museo civico di Arte Antica fermandoci almeno dieci minuti in contemplazione del “Ritratto d’uomo” di Antonello da Messina il cui sguardo pareva seguirci in ogni angolo della saletta in cui era ubicato.

Insomma, per farla breve, terminammo il nostro giro praticamente al limite dell’orario di chiusura ed il custode che ci accompagnava solerte lungo lo scalone juvarriano non sembrò particolarmente entusiasta di sentirsi chiedere a bruciapelo: “Mi scusi, ma nel libro su “Torino Barocca” c’è scritto che qui, a Palazzo Madama, è conservata la Peota Reale, una grande barca da parata costruita a Venezia nel 1700. Non sarebbe possibile vederla?”.

Il custode rimase interdetto, guardò l’orologio e poi guardò noi che, in effetti, da oltre un’ora eravamo rimaste le uniche visitatrici del palazzo. Allora mutò il disappunto in un sorriso e ci disse di aspettarlo nell’atrio.

Rientrò nel locale della biglietteria e ne uscì con un mazzo di chiavi ed una grande torcia elettrica.
“Non dovrei proprio farvela vedere, non fa parte dell’esposizione per il pubblico, non sappiamo nemmeno per quanto tempo rimarrà qui con i beni del museo, non posso neppure accendere le luci della “rimessa”, ma posso almeno farvi vedere le sculture che stanno a prua.”

Aprì velocemente le porte del grande atrio di piano terra dove ora, occasionalmente, si tengono alcune mostre e che cinquant’anni fa appariva invece come una specie di deposito dov’erano ammucchiate casse e arredi coperti da dei teli.

Essendo settembre il tardo pomeriggio era ancora piuttosto luminoso ma l’interno della “rimessa” era già invaso per la maggior parte dall’ombra; il custode si avviò deciso verso il centro della stanza e scostò letteralmente i due lembi sovrapposti dei grandi teli che ricoprivano l’imponente struttura della Peota Reale.

Quindi accese la torcia elettrica e illuminò per alcuni minuti il volto di Narciso, incredibilmente bello e malinconico, poi ci lasciò intravedere tutta la figura ritratta con un braccio levato e l’altro appoggiato mollemente lungo il corpo.

Ricordo la magia di quei minuti come se fosse ieri e, anche se in seguito ho potuto rivedere la Peota, stupendamente restaurata ed inserita a onor del vero in una cornice molto più appropriata come quella delle scuderie Juvarriane della Venaria, dove un fondale di specchi permette di replicare l’effetto che i costruttori avevano immaginato si potesse creare quando le sculture si fossero riflesse sulla superficie dell’acqua, devo dire che il volto di Narciso non mi è mai parso tanto bello quanto in quei pochi minuti nei quali un anziano custode di Palazzo Madama concesse a due sedicenni appassionate d’arte di “sbirciare” al di sotto dei teli che custodivano la sua presenza.

Immagine tratta dal web

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