DI ANNA LISA MINUTILLO
Ci sono parole che restano lì, sospese sul filo della superficialità, dell’indecisione, del facile giudizio e della poca propensione all’ascolto.
Altre invece giungono a destinazione, qualcuna con la giusta interpretazione, altre con la soggettiva e comoda attenzione.
Ci sono parole che si smarriscono lungo il percorso e magari a ben guardare a volte è meglio sia così.
Parole che si occupano di violenza gratuita, di mari di odio che non hanno spiegazione se non quella dei fallimenti individuali che finiscono per sfociare nell’unico sistema a disposizione.
Ci sono parole di denuncia per fatti di cronaca pesanti, dimenticati volutamente, mai approfonditi per non metterci in contatto con l’abisso in cui stiamo sprofondando sempre più.
Parole che accompagnano giorni di dolore, dove ci sono “vittime del mare”, di “incendi provocati”, di “lavoro rubato “e mai più ritrovato, di “povertà” a cui si viene inconsapevolmente destinati.
Parole in cui alcuni si identificano, altri “sberleffano”, altri ancora ignorano per non intaccare la “bella vita” che a scapito di altri conducono.
Parole di “fuoco” che ardono solo della pochezza che contengono, quelle destinate a chi ha un credo religioso differente dal “nostro”, a chi ha un orientamento sessuale che non “rispetta gli standard”, di cui tanto si parla ma ancora ostico da “digerire ed accettare”.
Come dimenticare poi le “gratuite offese” a “quei terroni” che pensano solo a mangiare e a non lavorare?
Salvo poi andare a riempire quei paesaggi che li ospitano nei mesi estivi, di sporcizia, di mancanza di rispetto, di degrado che supera le sfumature pessime di alcune espressioni.
Parole di “sfida” quelle usate nelle campagne elettorali mai terminate, parole di “saccenza” quando spesso non si conosce neanche la realtà che ci circonda, parole che hanno il “bel suono della condivisione”, ma che si perdono nell’egoismo più totale, parole di cristianità, travestita da “identificazione” per innalzare altri muri, che sovrastano “crocifissi di pace”, quando non si perde occasione per dimostrare di essere “pessimi cristiani”, così, come se bastasse un crocifisso a fare di noi delle persone migliori.
Valzer di pesanti idiozie, su carta, a voce, nella rete, ovunque si possa “competere”, indirettamente, pochi, rari quelli che ci “mettono la faccia”, quelli con cui ci si possa confrontare serenamente.
E’ lo sport nazionale, l’ultima novità dell’anno, oppure quella più vecchia dello stesso mondo ma elargita e propinata attraverso sistemi tecnologicamente avanzati, ma con gli avanzi di quel po’ di cervello che ancora rimane.
Brasati dalla tuttologia, esperti di look e tendenze ma anche di politica e sociologia, alla ricerca di assensi e consensi e non importa come e nemmeno perché, importa prendere in giro, sfoggiare, mettersi in vetrina per poi ridere di chi, nella vita reale è ben distante dal proporsi o dall’esprimersi proprio per la non avvenenza, o per la “scarsa” preparazione, magari.
Ma, nulla, siamo diventati così: “ospiti” di questo circo dell’etere, in bilico tra le emozioni reali ed il timore di esprimerle, speculari di un mondo in cui si fa sempre più fatica a domandare all’altro : “come stai”?, salvo poi diventare attenti osservatori dei movimenti social, ma anche questo solo quando fa comodo, quando c’è un indice da puntare, quando si ritiene di essere talmente “importanti” da interpretare le considerazioni altrui rivolte al proprio indirizzo, senza mai fermarsi a pensare che la vita, quella reale, si vive fuori da qui, che ognuno usa il “mezzo” come vuole, che non ci deve forzatamente sempre essere un destinatario.
Parole che dovrebbero accarezzare pensieri, trasformate in armi, che mietono silenziose vittime.
Sistemi che stancano, che annoiano, che diventano liquame di rancori e culle di ostentazioni, non richieste, mal odoranti, lontane da ciò che siamo per lasciare spazio a ciò che invece bisogna far vedere.
Pochi i saluti sinceri, le preoccupazioni reali, si “inciampa” in qualche doloroso post per “scoprire” che quell’amico/a non c’è più, meteore che non brillano in un mondo buio a cui hanno spento la luce.
Poi cammini, e lo sguardo ti “cade” sui fiori di campo, proprio loro, quelli semplici, imperfettamente perfetti e differenti gli uni dagli altri.
Ognuno con la sua struttura, ognuno con il suo colore, ognuno con quei petali sottili, che si muovono al solo passaggio.
Li guardi e comprendi quanto nella diversità stia l’armonia del mondo, quanto nel loro nascere spontaneo, sia racchiuso il poter scegliere dove portare colore, quanto cose apparentemente piccole siano in grado di regalare ad un anonimo prato la bellezza.
Ecco, magari se imparassimo dai fiori di campo, ad essere se stessi pur facendo parte di una comunità, se imparassimo da loro a non escludere anche chi magari ha meno colori di noi, se lo circondassimo con la presenza reale e con la disponibilità piuttosto che additarlo isolandolo, se imparassimo a distinguere i differenti profumi, tutti utili affinché tuffandosi in mezzo a loro si respiri quel profumato abbraccio, tutto sarebbe differente..
Tutto ciò che viene richiesto è essere per insegnare, imparando, ad esistere, così, semplicemente, senza troppe parole.
Sarebbe decisamente meglio se queste inutili e stancanti sfide si decidesse di “combatterle” imparando dai fiori…
©®foto limian
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