Incontri, treni e racconti

DI GIOVANNI BOGANI

1. Incontro

Carte e vento volan via nella stazione, freddo e luci accese forse per noi lì. Una stazione secondaria, come la Modena di Francesco Guccini in quella canzone, ormai vecchia mezzo secolo. Una stazione secondaria, una sera di fine estate.

Il treno è in ritardo. Il binario è quasi al buio. Un africano impreca su una panchina. Tre ragazzi, in piedi, poco più in là. Vent’anni. Un ragazzo e due ragazze. La più bella ha una gonna molto molto corta, le gambe nude, ai piedi scarpe Adidas. Muove continuamente le gambe, fa uno strano movimento alla Jerry Lewis, ginocchio dentro e calcagno fuori, come se fosse una marionetta. Ma forse vuole solo far vedere che le sue gambe sono belle, forti, e finiscono con un paio di Adidas bellissime.

Effettivamente è molto bella. Una dei milioni di ragazze con cui, nella mia vita, non potrò più parlare. Perché dentro ho la loro età, ma fuori non ce l’ho più da un pezzo. Sono un adolescente pieno di rughe, con il collo avvizzito come quello di un pollo, e il cuore che batte in gola come nei giorni del liceo.

2. Treno di notte

Il treno è una capsula, un’astronave desolata con le luci al neon, dentro, e il buio fuori. È tanto nero, fuori, che potrebbe essere ovunque. Ma Prato è già passata, siamo quasi alla stazione secondaria dove devo scendere.

Un po’ più in là, due ragazze straniere parlano fra loro. Una parla inglese con più fatica, forse è spagnola. L’altra le spiega qualcosa, si parlano appassionatamente. Quella che sembra inglese, o americana, ha uno strano vestito: un camicione bianco con uno spacco laterale, dal quale esce una gamba bianchissima. Sopra ha un trench marrone da uomo, o forse non è marrone. È color grigio tristezza. Però è bello vedere come si parlano, come si guardano negli occhi, come esplorano insieme un angolo di mondo nuovo per entrambe.

Alla stazione secondaria della mia città. Scende un ragazzo di colore, alto. Cammina dinoccolato, come ballando. Lo lascio camminare avanti, io non ho fretta stasera. Cammino piano. E con la coda dell’occhio, su una panchina di ferro, vedo uno zainetto.

Siamo solo in due a camminare lungo il binario, il ragazzo di colore più avanti ed io. E il binario è deserto. Mi viene in mente il pensiero che ha ossessionato tutti quelli della mia generazione: una bomba. La bomba alla stazione. Mi fermo, lo guardo: mi sembra troppo piccolo per contenere una bomba. Ma che ne so, io, di bombe? L’avrà lasciato, più probabilmente, un ragazzo. Che ha preso il treno di corsa. O una ragazza con le gambe nude e le scarpe Adidas.

In ogni caso, non sono fatti miei. O forse non è stato perduto, è di qualcuno che si è allontanato un attimo. Vado nel sottopassaggio, esco nel piazzale. Sto per mettere in moto lo scooter. Poi mi fermo, e rimetto lo scooter sul cavalletto.

Se invece era stato perso? Se chi lo ha perso ci torna domattina, lo zainetto non trova di certo. Guardo se ci sia, da qualche parte, un ferroviere, o uno di quegli addetti alle pulizie che passano nei treni. O un ufficio di qualche tipo. Ci sarà pure un ferroviere da qualche parte, no? No. C’è il solo il piccolo negozio delle pizze, all’angolo. Mi rendo conto che una stazione, di sera, è solo una scatola vuota. E che se uno perde qualcosa, la perde, punto e fine, senza speranze.

3. Una frase inattesa

E allora prendo il telefono, e provo a chiamare il 112. Chissà se è il numero giusto da fare. “Pronto, emergenze…” risponde una voce di donna. “Non so se sia un’emergenza”, dico. “Mi trovo in questa stazione, e c’è uno zainetto abbandonato su una panchina di un binario”. Ho paura che mi ridano dietro, o che tutto diventi solo una grana per me. Temo che mi ascoltino con sospetto. Spiego tutto, come meglio posso, alla voce di donna. “Lei come si chiama?” mi risponde. Eccoci, cominceranno a chiedermi documenti e altro, e lo zaino resterà lì, portato via da qualcuno.

“Dove si trova adesso?”. Glielo dico, e penso che lo zaino forse a questo punto non c’è già più. E io sembrerò uno che ha procurato un allarme per niente.

La donna mi dice “io non sono competente”, e penso che mi butti giù. Invece mi passa ai Carabinieri. Stessa cosa, stesse domande, stesse risposte. C’è uno zainetto su una panchina a un binario della stazione, dico, ma ormai sono quasi sicuro che non ci sia più. Il carabiniere mi dice “la devo passare alla Polfer”. E rispiego la storia, per la terza volta. Ma stavolta, una voce di uomo mi ferma: “Aspetti: perché ho adesso in linea la persona che ha perduto lo zaino”.

Accidenti. Sembra un film, penso.

E sono contento. C’è il ragazzo che ha perduto lo zainetto.

La voce di uomo al telefono mi dice “se vuole do il suo numero a chi ha perso lo zaino, oppure vi metto in comunicazione io, da qui”. Certo che sì, velocizziamo i tempi. Ogni manciata di secondi che siamo lì al telefono diminuiscono le probabilità di ritrovarlo. Allora dico all’agente Polfer “Guardi, io intanto torno al binario e vedo se lo zainetto c’è ancora. Corro nel sottopassaggio, mi auguro di non aver sognato. Che non sia il primo segnale dell’Alzheimer.

Probabilmente si sente che sto correndo, o si sentono le voci dall’altoparlante dei treni in transito. L’agente Polfer mi dice una cosa che non mi sarei mai aspettato: “Lei è davvero una brava persona”. E sembra pensarlo davvero. Ma com’è possibile? Una brava persona? Io? Pensavo mi sgridassero, per il tempo perduto.

6. Real Madrid

Arrivo al binario, di corsa. Lo zainetto lo intravedo, nel buio, sulla panchina. E lì vicino c’è un tipo che cammina su e giù. Non so se aspetta un treno o se aspetta che non ci sia nessuno per avvicinarsi allo zainetto.

Mi avvicino alla panchina. E in quel momento mi passano, al telefono, il ragazzo che ha perso lo zainetto. Ha la voce felice, come quando la Nazionale vince ai rigori: felice dopo la paura. Mi dice che adesso è in una città lontana una quarantina di chilometri: mi chiede se posso aspettare in stazione. Gli dico che, se vuole, può passare da casa mia. Gli do l’indirizzo, gli scandisco bene il mio numero di telefono. Forse non si deve fare così, probabilmente non è ortodosso far venire uno sconosciuto a casa propria. Ma la voce del ragazzo, la musica di quella voce, mi diceva che non c’era pericolo. E per quello che riguarda l’ora, erano circa le dieci di sera. Per me, le dieci di sera sono pomeriggio. Resto sveglio, a leggere o a scrivere, fino alle quattro di mattina. Non sarà un problema, se suona un campanello alle dieci e mezza, o alle undici.

Per la prima volta, sollevo lo zainetto. È leggerissimo. E allora temo che gli abbiano già portato via quello che potevano portar via. Mi dispiace, se dopo la speranza ci sarà la delusione. Lo metto delicatamente nel baule dello scooter, arrivo a casa, metto su la pizza surgelata, e – sorpresa meravigliosa – c’è la partita di Champions su Amazon Prime, Inter e Real Madrid, tanti campioni, qualcosa di bello da guardare anche stasera. E aspetto che il campanello suoni.

Gli dico di salire? O è anche questa una procedura anomala, scorretta, fuori protocollo? Ma io a fare cinque piani giù e cinque piani su, senza ascensore, adesso faccio un po’ fatica. E poi era un ragazzo, al telefono. Sarà più in forma di me. Il timer della pizza sta per suonare. E un attimo prima suona il campanello.

Sale su con un tempo di percorrenza delle scale degno di Usain Bolt. E quando lo vedo, mi prende un colpo: è in divisa, e ha la fondina per la pistola! Non riesco a vedere se la pistola ci sia davvero, cerco di non farci caso. E se fosse stata tutta una strategia – lo zaino perduto, lui che resta in attesa al telefono della Polfer – per entrare in casa mia a mano armata?

7. L’ingranaggio del mondo

Ma io questa cosa in realtà non la penso. Vedo che è una guardia privata, di qualche compagnia di vigilantes. Guardo i suoi capelli: non è un ragazzo, in realtà, ha un gran ciuffo di capelli sale e pepe, sarà più giovane di me di cinque o dieci anni. Dopo aver sorvegliato qualche azienda, nel tornare a casa si è dimenticato di sorvegliare le sue cose. Ci salutiamo con i gomiti. Sarà l’unica persona in carne e ossa che vedo in tutta la settimana.

Mi dice che era disperato, perché nello zainetto perduto c’era il portafogli – tira fuori un portafogli gonfio – con tutti i suoi documenti, e probabilmente anche con un bel po’ di banconote. O così a me pare: ma sono uno che non gira mai con più di dieci euro di cash.

Comunque, avevo sbagliato tutto. Non è un ragazzo, non si è distratto guardando Instagram mentre arrivava il treno, o su qualche piattaforma di cui neanche conosco il nome. È un uomo che ha lavorato tutto il giorno, e che dopo una giornata di lavoro era stanco, ha perso il controllo sulle sue cose, ha abbassato la guardia. Proprio quello che, per due settimane, è stato il mio incubo a Venezia, alla Mostra del cinema, quando devi correre dappertutto e se perdi il controllo lasci tutto in giro. Ed era il mio incubo al ritorno da Venezia, con il trolley e tre zaini, e due braccia soltanto.

L’uomo tira fuori una banconota dal portafogli, insiste per darmela. La rifiuto, ma troppo timidamente per impedirglielo. Mi dice che corre via, ha un bambino che lo aspetta. Immagino una famiglia, dove il marito si guadagna il pane, e dove la sera dà il bacio della buonanotte al figlio. Tutto quello che avrei voluto costruire, e non ho fatto.

Immagino un padre con la pistola, un uomo che fa un lavoro che, in un caso su mille, può costarti caro. Se ne va, continua a ringraziarmi. Ma dovrei ringraziarlo io. Mi ha fatto sentire meno inutile, in questa giornata. Lo avrei invitato a mangiare la pizza con me… O Dio, la pizza!! Apro il forno. È di un bel colore nero asfalto appena steso. Ma scrostata con cura, è buona lo stesso. E io mi sento un po’ meglio, adesso. Una piccola rotellina nell’ingranaggio del mondo si è rimessa al suo posto. E ce l’ho messa io.

©® Copyright, foto di Giovanni Bogani

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