Kent Haruf,
La strada di casa.
NN Editore
Ci sono dei nomi che risultano ricorrenti quando si tratta di letteratura contemporanea.
Kent Haruf è sicuramente uno di questi.
È impossibile non imbattersi nel suo nome quando si cercano nuovi spunti di lettura.
Una tale esposizione ha fatto sorgere, almeno nel sottoscritto, una forte curiosità di verificare quanto questa fama sia meritata.
Di constatare se il fenomeno risulti contagioso per ragioni meramente commerciali o se nasconda motivi ben più profondi.
A lettura conclusa posso dire di volermi ascrivere a questa seconda categoria.
La prospettiva assunta da Haruf e la sua modalità espositiva risultano, infatti, a mio modesto parere, particolarmente interessanti.
Il narratore individuato dall’autore vive ad Holt, cittadina non lontana da Denver.
Una località immaginaria di fatto replicabile molteplici volte nell’ America più profonda. Quella lontana dalle metropoli mainstream.
Con venature escludenti.
Per una semplice motivazione: un percorso forzato di omologazione.
Una mediocritas tutt’altro che aurea.
Una tendenza al ribasso del comune sentire che ammette poche sfumature.
È in questo aspetto che il sottoscritto ravvisa la qualità migliore di Haruf: aver individuato un io narrante che è parte integrante della comunità. Ne conosce i sentimenti. Li trasmette. Ma nel comunicarli al lettore ne fa intuire una velata distanza.
Sono uno di loro. So cosa pensano e vi spiego i meccanismi mentali che si celano dietro le loro azioni. Ve li riferisco. Ma io, giornalista di provincia, non vi aderisco totalmente.
Questo, in estrema sintesi, il punto di vista narrativo costruito dal nostro Autore.
Protagonista della storia è Jack Burdette. Un giovane scialacquatore che, sin dalla tenera età, manifesta spiccate tendenze antisociali ed una assoluta mancanza di sensibilità.
<<Quando compì sei anni lo mandarono a scuola. Con i capelli lisciati, la camicia e i pantaloni nuovi, entrò per la prima volta nel vecchio edificio di mattoni a tre piani al margine occidentale della città, con gli ampi scalini consumati al centro, le finestre alte e il familiare odore di polvere spazzata, e non gli piacque. […] Allora durante la ricreazione lui si allontanava dall’area giochi e tornava a casa. Lo faceva più o meno una volta alla settimana.>>(pag.19).
Neanche la maturità riuscirà a scalfirlo, anzi.
Il mondo dei sentimenti risulta, così, quello in cui più gli verrà facile dimostrare il suo assoluto disprezzo per qualunque forma di romanticismo e di rispetto per la partner.
<<In effetti, per otto anni, Jack ogni sabato sera parcheggiava di fronte alla casa in Chicago Street, scendeva dalla macchina, si avvicinava alla casa con un sacchetto di carta marrone sottobraccio, un sacchetto che non conteneva mai rose o garofani o anche solo un mazzo di margherite, ma era pieno dei vestiti sporchi accumulati in una settimana, calzini usati, camicie sudicie.>>(pag.65).
Sono due, oltre la madre, le donne vittima del comportamento di Jack.
La prima interna alla comunità, Wanda Jo Evans.
La seconda, Jessie, estranea e subentrata con un risoluto, altero distacco.
Secondo la mentalità tribale che Haruf perfettamente rende, questo comportamento non avrebbe potuto non avere un peso particolare nel determinare un surplus di cattiveria nei suoi confronti.
Jack l’avrà sì abbandonata ma è pur sempre scappato con i soldi della comunità in cui è nato e cresciuto.
Jessie è sì una vittima ma, di riflesso, in quanto moglie, ha qualcosa che è comunque chiamata a scontare. E quel prezzo è la comunità a fissarlo.
Jessie è incinta.
<<Io non so che valore monetario attribuiscano alle bambine dalle altre parti, ma nel maggio di quell’anno scoprimmo che quei centocinquanta mila dollari […] sembravano un importo appropriato>>(pag. 137).
Jessie, compito del lettore scoprire come, salda il suo conto.
Segna, così, il punto da cui ripartire per rifarsi una vita.
In un mondo in cui la giustizia degli uomini e quella divina mostrano chiare lacune, se questo potrà realmente accadere non dipenderà, però, esclusivamente solo da lei.
Perché “la cicala” difficilmente tende a diventar “formica”.
Immagine tratta dal web
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