La crisalide

DI GIOVANNI BOGANI

 

Domani devo partire. Devo andare al festival di Cannes. Sono due anni che non ci vado: l’anno scorso c’era il covid, c’era il caos, nemmeno una cosa così radicata come il festival di Cannes si è svolta. Invece adesso tutto riparte. E io ci devo essere. Quante migliaia di giornalisti ci saranno? E come sarà, questo festival spostato nelle date, a luglio e non a maggio?

Oggi pomeriggio vado nel giardino dove vado sempre. Quello con la grande serra di ferro e di vetro, quella grande crisalide di farfalla trasparente, così elegante e così fragile, che è lì da quando sono bambino, e resterà quando io smetterò di essere. Cammino in un angolo del giardino dove vanno solo i ragazzi. Delle specie di terrazzamenti di cemento, con un prato di terra, senza erba. Mi piace così. E poi lì non c’è quasi nessuno.

Anzi, non c’è proprio nessuno. Ci sono dei graffiti con delle parole oscene. Fa molto caldo. Scorro lo sguardo sul davanzale di cemento. A una decina di metri da me vedo uno strano oggetto.

No, non è strano. È strano che sia lì.

È un telefono.

In questa area del parco vengono le ragazzine con le amiche, o con il ragazzo. Bevono birra, ascoltano musica insieme, ridono, si abbracciano. Io cammino, o siedo e apro il computer, e scrivo l’articolo di quel giorno. Ma almeno sento della vita, intorno.

Adesso non c’è nessuno. C’è un telefono sopra il davanzale di cemento. E allora aspetto. Aspetto che chi lo ha perso torni a prenderlo, e che non arrivi un gruppo di ragazzini a portarselo via.

Ma non passa proprio nessuno. E fra poco è ora di chiusura del parco. Io non voglio avvicinarmi, non lo voglio toccare, non voglio che si possa lontanamente pensare che voglio rubare qualcosa.

Fra quindici minuti il parco chiude. Stanotte sarà umido, e domattina qualcuno vedrà il telefono e se lo porterà via. Non sono affari miei, mi dico.
2. Il vecchio di Dublino

Penso di aspettare il vigilante che chiude il cancello. Gli dirò di scendere con me a prendere il telefono. E se non scende? O magari fa finta di custodirlo, e una volta a casa se lo tiene per sé. Mi sento così stupido, perché sono indeciso anche per una cosa così stupida.

Poi decido. Mi avvicino, ancora non c’è nessuno intorno. Lo tiro su, delicatamente, come se fosse una lastra di ghiaccio, un uccellino con un’ala rotta. È intero. Non vedo se lo schermo è oscurato oppure no. Lo prendo e vado verso la biblioteca. Come ho fatto a non pensarci prima? Ma la biblioteca chiude, un’ora prima del parco. Guardo dentro la porta a vetri. C’è qualcuno che sta dando lo straccio, che sta facendo le pulizie.

Busso. Non mi risponde. Busso di nuovo, poi penso che fra cinque minuti il parco chiude, con me dentro. La donna alza la testa, si volta, mi guarda. “E’ chiuso”, mi dice con i gesti.

Ma alla fine mi faccio aprire. Le dico del telefono, lei mi fa capire “non ne voglio sapere nulla”, le chiedo se posso lasciarlo lì, sul tavolo del bibliotecario, con un biglietto. Sì, ma faccia in fretta. Prendo carta e penna, lascio un messaggio e sopra ci metto il telefono.

È un iPhone, me ne accorgo adesso. Secondo me lo ha perso una ragazzina, gli anziani che passano di lì hanno gli Alcatel da 29 euro e 99 centesimi, quelli non smartphone. O i Samsung da 19 e 99.

Mi viene in mente che un giorno, a Dublino, avevo perso la macchina fotografica in un parco. Tornai dopo due ore, disperato. C’era ad aspettarmi un vecchio. A gesti e a sguardi mi disse di andare con lui. Mi portò a un posto di polizia, dove mi resero la macchina fotografica, che il vecchio aveva consegnato loro. La mia Canon Av 1 non l’avrei rivista mai più, non fosse stato per lui.

Sono felice di lasciare il telefono sul tavolo del bibliotecario. E mentre lo sto posando sul tavolo, si illumina, squilla. E nel display c’è scritto “MAMMA”. Non rispondo, non saprei neanche come sbloccarlo, un iPhone. Ma so che quella mamma ritroverà, domattina, il cellulare di sua figlia.

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